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In nessuna delle sue congetture si era aspettata di essere messa a terra e diritta non più di un’ora dopo essere stata catturata.

«Dissella il suo cavallo, Noren, e picchettalo con gli altri» disse il Murandiano.

«Subito, mastro Neald» rispose qualcuno con accento cairhienese.

I legacci attorno alle sue caviglie caddero via, la lama di un coltello le scivolò tra i polsi, tagliando anche quelle corde, e poi qualunque cosa stesse tenendo fermo il suo bavaglio venne slegata. Galina sputò fuori seta impregnata della sua stessa saliva e strattonò il cappuccio all’indietro.

Un uomo basso, in una giubba scura, stava conducendo via Rapida attraverso un disordinalo insieme di grandi tende brune rattoppate e piccole capanne rozze che sembravano fatte di rami di alberi, inclusi alcuni di pino con aghi bruni. Quanto ci voleva perché i pini diventassero bruni? Giorni, certamente, forse settimane. I sessanta o settanta uomini che si occupavano dei fuochi da campo o sedevano su sgabelli di legno avevano l’aria di contadini nelle loro rozze giubbe, ma alcuni stavano affilando spade, lance, alabarde, e altre armi ad asta erano raggruppate in dozzine di posti. Attraverso i varchi tra le tende e le capanne, lei poteva vedere altri uomini che si muovevano in giro da entrambi i lati, un buon numero di loro con elmi e corazze, a cavallo e con in pugno lunghe lance con vessilli. Soldati che uscivano di pattuglia. Quanti altri ce n’erano oltre la sua vista? Non aveva importanza. Quello che c’era di fronte ai suoi occhi era impossibile! Gli Shaido mandavano in ricognizione le sentinelle dal loro campo più lontano di così. Lei ne era certa!

«Se la faccia non fosse sufficiente,» mormorò Neald «quello sguardo freddo e calcolatore mi convincerebbe. Come se stesse esaminando dei vermi sotto una roccia che ha capovolto.» Quel tizio allampanato in una giubba nera si toccò con le nocche i baffi incerati con aria divertita, attento a non rovinare le punte. Portava una spada, ma di certo non aveva l’aspetto di un soldato o di un armigero. «Bene, allora andiamo, Aes Sedai» disse, afferrandola per il braccio. «Lord Perrin vorrà farti qualche domanda.» Galina si liberò con uno strattone, ma lui la prese con calma in una stretta più salda. «Adesso basta.»

Il grosso Aiel, Gaul, la prese per l’altro braccio, e la sua scelta fu tra andare con loro o essere trascinata. Camminò a testa alta, fingendo che loro non fossero che una scorta, ma chiunque avesse visto come la tenevano per le braccia avrebbe capito che non era così. Con lo sguardo dritto davanti a sé, era comunque consapevole dei contadinotti armati — perlopiù erano giovani — che la fissavano. Non a bocca aperta dallo stupore, solo osservandola, esaminandola. Come potevano essere così arroganti con una Aes Sedai? Alcune delle Sapienti che erano ignare del giuramento che la vincolava avevano cominciato a esprimere dubbi che lei fosse Aes Sedai, poiché obbediva tanto prontamente ed era così servile verso Therava, ma questi due sapevano cos’era. E non gliene importava. Galina supponeva che anche quei contadini lo sapessero, eppure nessuno mostrava la minima sorpresa per come la stavano trattando. Le faceva pizzicare la nuca.

Mentre si avvicinavano a una grossa tenda a strisce rosse e bianche con i lembi legati all’indietro, lei udì delle voci dall’interno.

«...detto che era pronto a venire immediatamente» stava dicendo un uomo.

«Non posso permettermi di nutrire nemmeno una bocca in più se non so per quanto tempo» replicò un secondo.

«Sangue e ceneri! Quanto ci vuole per organizzare un incontro con questa gente?»

Gaul dovette abbassarsi per entrare nella tenda, ma Galina fece il suo ingresso come se si trattasse delle sue stanze nella Torre. Poteva essere una prigioniera, ma era Aes Sedai, e quel semplice fatto era uno strumento potente. E un’arma. Con chi stava cercando di organizzare un incontro? Non Sevanna, di certo. Che si trattasse di chiunque, ma non di Sevanna.

In netto contrasto con il raffazzonato campo al di fuori, nella tenda c’era un bel tappeto a fiori come pavimento, e da aste del soffitto pendevano due arazzi di seta ricamati con fiori e uccelli secondo la moda di Cairhien. Lei si concentrò su un uomo alto e dalle spalle larghe in maniche di camicia che le dava le spalle, appoggiando i pugni contro un tavolo dalle gambe esili decorato con linee di doratura e coperto di mappe e fogli di carta. Galina aveva solo scorto Aybara da lontano a Cairhien, tuttavia era certa che quello fosse lo zotico che veniva dallo stesso villaggio natale di Rand al’Thor, malgrado la camicia di seta e gli stivali ben lucidati. Perfino i risvolti erano lustri. Se non altro, tutti nella tenda parevano guardare lui.

Quando lei fece il suo ingresso, una donna alta in un abito di seta verde dall’alto collo con tocchi di merletto alla gola e ai polsi, e con capelli neri che le cadevano ondulati sulle spalle, appoggiò una mano sul braccio di Aybara con familiarità. Galina la riconobbe. «Pare cauta, Perrin» disse Berelain.

«Sembra temere una trappola, a mio parere, lord Perrin» si inserì un uomo temprato e dai capelli grigi in un pettorale ornato, indossato sopra una giubba scarlatta. Un Ghealdano, pensò Galina. Almeno lui e Berelain spiegavano la presenza dei soldati, anche se non come potessero trovarsi dov’era impossibile che fossero.

Galina era davvero lieta di non aver incontrato la donna a Cairhien. Quello avrebbe reso l’attuale situazione più che semplicemente imbarazzante. Desiderò che le sue mani fossero libere in modo da poter asciugare i residui di lacrime dalla faccia, ma i due uomini le tenevano saldamente le braccia. Non c’era nulla che potesse fare al riguardo. Lei era Aes Sedai. Quello era tutto ciò che contava. Era tutto ciò a cui avrebbe permesso di contare. Aprì la bocca per prendere il controllo della situazione...

Aybara all’improvviso la guardò da sopra la spalla, come se avesse percepito la sua presenza in qualche modo, e i suoi occhi dorati le gelarono la lingua. Lei non aveva creduto ai racconti secondo cui quell’uomo aveva gli occhi di un lupo, ma era così. Gli occhi spietati di un lupo in un volto duro come la roccia. Faceva sembrare quasi tenero il Ghealdano. E il volto dietro quella barba tagliata corta era anche triste. Per sua moglie, senza dubbio. Galina poteva sfruttare questo fatto.

«Una Aes Sedai che indossa il bianco da gai’shain» disse in tono inespressivo, voltandosi verso di lei. Era un omone, anche se non era grosso quanto l’Aiel, e torreggiava stando semplicemente lì, con quegli occhi dorati che coglievano tutto quanto. «E una prigioniera, pare. Non voleva venire?»

«Si dibatteva come una trota sulla sponda del fiume mentre Gaul la stava legando, mio signore» rispose Neald. «Per quanto riguardava me, non avevo nulla da fare se non starmene a guardare.»

Una cosa strana da dire, e in tono tanto significativo. Cosa poteva aver...? Tutt’a un tratto Galina divenne consapevole di un altro uomo con una giubba nera, un tizio tarchiato e segnato dalle intemperie con una spilla argentea a forma di spada assicurata al suo alto colletto. E si ricordò qual era stata l’ultima volta che aveva visto uomini in giubba nera. Li aveva visti balzare fuori da buchi nell’aria appena prima che tutto divenisse un completo disastro ai Pozzi di Dumai. Neald e i suoi buchi, i suoi passaggi. Questi uomini erano in grado di incanalare.

Ci volle tutto quello a cui lei poteva fare appello per non cercare di liberarsi con uno strattone dalla stretta del Murandiano, per non allontanarsi. Solo essere così vicina a quell’uomo le faceva contorcere lo stomaco. Essere toccata da lui... Voleva gemere, e questo la sorprese. Di certo era più tenace di così! Si concentrò per mantenere una parvenza di calma mentre cercava di far salivare nuovamente la sua bocca d’improvviso secca «Sostiene di essere amica di Sevanna» aggiunse Gaul.