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«Offeso.» Tuon parve soppesare le parole. «Si potrebbe dire che mi abbia offeso. Ha tentato di uccidermi.»

Dei rantoli riempirono la stanza e, prima che Suroth potesse far altro tranne aprire la bocca, il generale di stendardo dei Sorveglianti della Morte le piantò uno stivale sul sedere, afferrò nel pugno la sua cresta e sollevò la parte superiore del suo corpo su dal pavimento. I ci non lottò. Quello non avrebbe fatto che contribuire all’umiliazione.

«I miei occhi sono profondamente abbassati che uno dei miei si sia rivelato un traditore, Altezza» disse con voce roca. Desiderò aver potuto parlare con voce normale, ma quel maledetto uomo le teneva la schiena così arcuata che era un miracolo il solo fatto che riuscisse a parlare. «Se l’avessi solo sospettato, io stessa l’avrei fatto interrogare. Ma se ha cercato di implicare me, Altezza, ha mentito per proteggere il suo vero padrone. Ho alcune supposizioni al riguardo che vorrei condividere con te in privato, se mi è consentito.» Con un po’ di fortuna, poteva attribuire tutto quello a Galgan. Il fatto che lui avesse usurpato la sua autorità avrebbe potuto aiutare.

Tuon guardò sopra la testa di Suroth. Incontrò gli occhi di Galgan, poi quelli di Abaladar e di Yamada, quindi quelli di chiunque del Sangue, ma non di Suroth. «È ben noto che Zaired Elbar era un uomo totalmente fedele a Suroth. Lui non ha fatto nulla che non abbia ordinato lei. Pertanto Suroth Sabelle Meldarath non esiste più. Questa da’covale servirà i Sorveglianti della Morte come essi desiderano finché i suoi capelli non saranno cresciuti tanto da renderla decente quando verrà mandata al blocco per essere venduta.»

Suroth non pensò al coltello che aveva avuto intenzione di usare per aprirsi le vene, un coltello che giaceva ormai irraggiungibile nei suoi appartamenti. Non riusciva a pensare affatto. Iniziò a gridare, un urlo scomposto, prima ancora che cominciassero a tagliarle via i vestiti.

Il sole andorano era tiepido rispetto a Tar Valon. Pevara si tolse il mantello e iniziò a legarlo dietro la sua sella mentre il passaggio si richiudeva, nascondendo la vista del boschetto ogier di Tar Valon. Nessuna di loro aveva voluto che qualcuno le vedesse partire. Sarebbero tornate al boschetto per la stessa ragione, a meno che le cose non si fossero messe molto male. Nel qual caso sarebbero potute non tornare affatto. Aveva pensato che quell’incarico doveva essere eseguito da qualcuno che combinasse eccellenti doti diplomatiche al coraggio di un leone. Be’, lei non era una codarda, perlomeno. Questo di lei si poteva dire.

«Dove hai imparato il flusso per vincolare un Custode?» chiese all’improvviso Javindhra, riponendo il proprio mantello in modo simile.

«Dovresti ricordare che una volta ho proposto che alle Sorelle Rosse sarebbe stato utile avere dei Custodi.» Pevara si infilò i guanti rossi per cavalcare, non mostrando alcuna preoccupazione per quella domanda. Si era aspettata che gliela ponesse prima. «Perché mai dovrebbe sorprenderti che io conosca il flusso?» In realtà aveva avuto bisogno di chiederlo a Yukiri e si era sforzata a fondo di dissimulare il motivo di quella richiesta. Dubitava che Yukiri fosse sospettosa, però. Una Rossa che vincolava un Custode era probabile quanto una donna che volasse. Tranne il fatto, naturalmente, che era proprio quello il motivo per cui era andata nell’Andor. Per cui erano andate tutte loro. Javindhra era lì solo per ordine di Tsutama, impartito quando Pevara e Tarna non erano riuscite a trovare abbastanza nomi che andassero bene all’Altissima. L’angolosa Adunante non si curava di nascondere il suo malcontento per quello, non da Pevara, anche se l’aveva seppellito in profondità in presenza di Tsutama. Tarna era lì, naturalmente, con i capelli chiari e fredda come il ghiaccio, la stola da Custode degli Annali lasciata indietro, ma le gonne divise ricamate in rosso fino al ginocchio. Sarebbe stato difficile per la Custode degli Annali di Elaida avere un Custode, anche se gli uomini sarebbero stati alloggiati in città, lontano dalla Torre, tuttavia era stata una sua idea, perciò si trovava lì, se non desiderosa almeno determinata di prendere parte a quel primo esperimento. Inoltre il bisogno di numeri era di primaria importanza, poiché avevano trovato solo altre tre Sorelle disposte a prendere in considerazione quell’idea. Il compito primario della Rossa per così tanto tempo, trovare uomini in grado di incanalare e portarli alla Torre per essere domati, tendeva a inasprire quelle donne verso tutti gli uomini, perciò gli indizi erano stati pochi e sparsi. Jezrail era una Tarenese dal volto squadrato che teneva una miniatura dipinta del ragazzo che aveva quasi sposato invece di venire alla Torre. A quell’ora i suoi nipoti sarebbero stati nonni, ma lei parlava ancora di lui con affetto. Dosala, una stupenda Cairhienese con grandi occhi scuri e un caratteraccio inopportuno, quando le fosse data la possibilità avrebbe danzato in una notte con un gran numero di uomini fino allo sfinimento. E Melare, grassoccia e arguta, con l’amore per la conversazione, mandava del denaro nell’Andor per pagare per l’educazione dei suoi pronipoti come aveva fatto prima per i suoi nipoti. Stanche di cercare tali minimi indizi, stanche di sondare con delicatezza per apprendere se le loro intenzioni erano davvero quelle che sembravano, Pevara aveva convinto Tsutama che per cominciare sei sarebbero state sufficienti. Inoltre un gruppo più numeroso avrebbe potuto causare qualche reazione spiacevole. Dopotutto il fatto che l’intera Ajah Rossa comparisse in quella cosiddetta Torre Nera, o perfino metà di loro, avrebbe potuto far ritenere a quegli uomini di essere sotto attacco. Non si poteva dire quanto fossero ancora sani di mente. Quella era una cosa su cui avevano convenuto, tenendone all’oscuro Tsutama. Non avrebbero vincolato nessun uomo che mostrasse qualche segno di pazzia. Ovverosia se fosse stato loro consentito di vincolarne qualcuno.

Gli occhi e orecchie delle Ajah a Caemlyn avevano inviato abbondanti rapporti sulla Torre Nera, e alcuni avevano perfino trovato un impiego al suo interno, perciò non ebbero difficoltà a localizzare il chiaro percorso di terra battuta che conduceva dalla città fino a un imponente cancello a doppia arcata, alto quasi cinquanta piedi e ampio dieci spanne, sormontato da merlature sopra uno spuntone di pietra centrale che puntava verso il basso e fiancheggiato da un paio di spessi torrioni neri merlati che si elevavano per almeno quindici spanne. Non c’erano dei veri cancelli a chiudere quell’apertura, e il muro di pietra nera che si estendeva fuori vista a est e a ovest, contrassegnato a intervalli dalle fondamenta di torri e bastioni, non era più allo di quattro o cinque piedi per quello che lei poteva vedere. Sulla cima sconnessa crescevano delle erbacce, increspate dalla brezza. Quelle mura non terminate, e che avevano l’aria che non lo sarebbero mai state, facevano sembrare ridicolo il cancello.

I tre uomini che uscirono dall’apertura non erano affatto ridicoli, però, l’orlavano lunghe giubbe nere e spade al fianco. Uno, un giovanotto magro con baffi arricciati, aveva una spilla d’argento a forma di spada sul suo alto colletto. Uno dei Dedicati. Pevara resisté all’istinto di pensare a lui come equivalente a un’Ammessa e agli altri due pari a delle novizie. Le novizie e le Ammesse venivano tenute al sicuro e guidate finché non conoscevano il Potere a sufficienza da diventare Aes Sedai. Stando a tutti i rapporti, i Soldati e i Dedicati erano considerati pronti per la battaglia quasi fin da quando apprendevano a incanalare. Ed erano costretti a farlo fin dal primo giorno, spinti ad afferrare più saidin possibile e usarlo quasi di continuo. Degli uomini morivano per questo, e loro li chiamavano ‘perdite da addestramento’, come se potessero nascondere la morte dietro blande parole. Il pensiero di perdere delle novizie o delle Ammesse a quel modo faceva torcere lo stomaco a Pevara, ma pareva che gli uomini lo considerassero normale.