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«Una buona giornata a voi, Aes Sedai» disse il Dedicato con un piccolo inchino mentre loro arrestavano i cavalli di fronte a lui. Un inchino davvero piccolo, senza mai distogliere gli occhi da loro. Il suo accento era del Murandy. «Ora, cosa possono mai volere sei Sorelle qui alla Torre Nera in questa bella mattinata?»

«Vedere il M’Hael» rispose Pevara, riuscendo a evitare di strozzarsi su quella parola. Voleva dire ‘capo’ nella Lingua Antica, ma la sola implicazione di assumere quel titolo dava alla parola un. significato più forte, come se fosse a capo di tutto e tutti.

«Ah, per vedere il M’Hael, davvero? E quali Ajah devo annunciare?»

«La Rossa» replicò Pevara, e lo vide sbattere le palpebre. Molto soddisfacente. Ma non di grande utilità.

«La Rossa» disse lui in tono piatto. Non era rimasto sbigottito molto a lungo. «Bene, dunque. Enkalin, al’Seen, rimanete di guardia mentre vedo cos’ha da dire il M’Hael su questo.»

Voltò loro le spalle e lo squarcio argenteo verticale di un passaggio comparve di fronte a lui, allargandosi in un’apertura non più grande di una porta. Non riusciva a ingrandirlo più di così? C’erano state alcune discussioni sulla scelta se vincolare uomini più forti possibile oppure quelli che erano deboli. I deboli potevano essere controllali più facilmente, ma i forti potevano essere — sarebbero stati di sicuro — più utili. Non avevano raggiunto un consenso: ciascuna Sorella avrebbe dovuto decidere per sé. Lui schizzò attraverso il passaggio e lo chiuse prima che Pevara potesse avere un’opportunità di vedere più di una piattaforma di pietra bianca con dei gradini che conducevano su per un lato e sopra a essa pietra nera squadrata che poteva essere uno dei blocchi degli edifici, levigato fino a brillare al sole.

Gli altri due uomini rimasero nel mezzo del doppio arco come per sbarrare la strada alle Sorelle. Uno era Saldeano, un uomo ossuto dal naso largo di poco inferiore alla mezz’età che aveva qualcosa dell’aspetto di un funzionario, un po’ curvo per essere stato ingobbito lunghe ore a uno scrittoio; l’altro era un ragazzo, poco più che un bambino, che si scostò i capelli scuri dagli occhi con le dita anche se la brezza li rimise presto dov’erano. Nessuno dei due sembrava minimamente a disagio nel trovarsi solo di fronte a sei Sorelle. Sempre che fossero da soli. C’erano altri in quei torrioni? Pevara si astenne dal guardare sulla loro sommità.

«Tu, ragazzo» disse Desala con una voce come campanelli. Campanelli con una punta di rabbia. Il modo più sicuro per suscitare la sua collera era far del male a un bambino. «Dovresti essere a casa con tua madre a studiare. Cosa stai facendo qui?» Il ragazzo arrossì e si scostò di nuovo i capelli dalla faccia.

«Saml sta bene, Aes Sedai» disse il Saldeano, dando una pacca sulla spalla del ragazzo. «Apprende in fretta e non bisogna mostrargli nulla due volte prima che lo impari.» Il ragazzo si erse molto dritto, orgoglio trasparì dal suo volto, e si infilò i pollici dietro la cintura portaspada. Una spada, alla sua età! Vero, il figlio di un nobile all’età di Saml al’Seen avrebbe già studiato la scherma da parecchi anni, ma non gli sarebbe stato permesso di indossare quella cosa in giro!

«Pevara» disse Tarna in tono freddo. «Niente bambini. Sapevo che avevano dei bambini qui, ma niente bambini.»

«Per la Luce!» sussurrò Melare. La sua giumenta bianca percepì la sua agitazione e gettò indietro la testa. «Certo che niente bambini!»

«Sarebbe un abominio» disse Jezrail.

«Niente bambini» si affrettò ad assentire Pevara. «Penso che dovremmo aspettare a dire altro finché non vedremo il maestro... il M’Hael.» Javindhra tirò su col naso.

«Niente bambini cosa, Aes Sedai?» domandò Enkazin . accigliandosi. «Niente bambini cosa?» ripeté quando nessuno rispose.

Non aveva più l’aria di un funzionario. Quella posizione curva rimaneva, ma qualcosa nei suoi occhi obliqui pareva... pericoloso. Stava trattenendo la metà maschile del Potere? Quella possibilità mandò un brivido lungo la schiena di Pevara, ma lei resiste al desiderio di abbracciare saidar. Alcuni uomini in grado di incanalare potevano percepire quando una donna stava trattenendo il Potere. Ora Enkazin pareva poter essere impetuoso.

Attesero in silenzio tranne per l’occasionale rumore di uno zoccolo, con Pevara che si imponeva di restare paziente e Javindhra che borbottava sottovoce. Pevara non riusciva a distinguere le parole, ma riconosceva i borbottii quando li udiva. Tarna e Jezrail presero dei libri dalle loro bisacce e si misero a leggere. Bene. Che questi Asha’man vedessero che erano imperturbate. Solo che nemmeno il ragazzo parve impressionato. Lui e il Saldeano si limitarono a starsene lì nel mezzo del cancello a osservare, a malapena sbattendo le palpebre.

Dopo forse mezz’ora un passaggio più grande si aprì e il Murandiano lo attraversò. «Il M’Hael vi riceverà nel suo palazzo, Aes Sedai. Entrate.» Fece un brusco cenno col capo verso il passaggio.

«Ci mostrerai la strada?» disse Pevara smontando. Il passaggio era più grande, ma lei avrebbe dovuto abbassarsi per attraversarlo stando in sella.

«Ci sarà qualcuno dall’altra parte a guidarvi.» Proruppe in una risata. «Il M’Hael non si intrattiene con quelli come me.» Pevara ripose quell’informazione per rimuginarci più tardi.

Non appena l’ultima di loro ebbe attraversato il passaggio, vicino alla piattaforma di pietra bianca con la sua pietra nera lucida come uno specchio, quello si richiuse, ma non erano sole. Quattro uomini e due donne in rozzi abiti di lana presero le redini dei loro cavalli, e un uomo scuro e tarchiato, che aveva sull’alto colletto nero sia la spada argentea, sia una sinuosa figura rossa e oro, un drago, offrì loro un minimo inchino.

«Seguitemi» disse bruscamente con accento tarenese. I suoi occhi erano come trivelle.

Il palazzo di cui aveva parlato il Murandiano consisteva in due piani di marmo bianco sormontati da cupole a punta e guglie nello stile della Saldea, separato da un ampio spazio di spoglia terra battuta dalla piattaforma bianca. Non era di grandi dimensioni per un palazzo, ma parecchi nobili vivevano in edifici molto più piccoli e meno sontuosi. Larghe scale di pietra salivano fino a un ampio pianerottolo di fronte a due alte porte gemelle. Su ciascuna c’era un pugno guantato che stringeva tre fulmini, dorato e intagliato in grande. Quelle porte si spalancarono prima che il Tarenese le raggiungesse, ma non c’erano servitori in vista. L’uomo doveva aver incanalato. Pevara provò di nuovo quel brivido. Javindhra borbottò sottovoce. Col suono di una preghiera, stavolta.

Era un palazzo che poteva appartenere a qualunque nobile con il gusto per degli arazzi con scene di battaglia e piastrelle rosse e nere, tranne il fatto che in giro non si vedeva nessun servitore. Lui aveva dei servitori, anche se purtroppo l’Ajah Rossa non aveva occhi e orecchie fra loro, ma si aspettava che rimanessero fuori vista quando non erano necessari oppure aveva ordinato che non andassero nei corridoi? Forse per evitare che qualcuno vedesse l’arrivo di sei Aes Sedai. Quella linea di ragionamento portava verso pensieri che lei avrebbe preferito non considerare. Aveva accettato i rischi prima di lasciare la Torre Bianca. Non c’era scopo di rimuginarci sopra.

La camera dove il Tarenese le condusse era una sala del trono, dove un anello di colonne nere intagliate a spirale sosteneva quella che doveva essere la cupola più grande del palazzo, con l’interno a strati dorati e quasi piena di lampade che pendevano da catene, tutto quanto dorato. C’erano anche delle alte lampade su sostegni provviste di specchi lungo le pareti curve, forse cento uomini in giubbe nere si trovavano in piedi da ciascun lato della stanza. Ogni uomo che lei poteva vedere portava la spada e il drago, individui con volti duri, maligni, crudeli. I loro occhi si concentrarono su di lei e sulle altre Sorelle.

Il Tarenese non le annunciò, ma si limitò a riunirsi alla massa di Asha’man e le lasciò ad attraversare la stanza da sole. Anche qui le piastrelle erano rosse e nere. Taim doveva apprezzare particolarmente quei colori. Quell’uomo in persona era stravaccato su quello che poteva essere solo chiamato un trono, una sedia massiccia dorata e intagliata pesantemente come qualunque trono lei avesse mai visto, in cima a una predella di marmo bianco. Pevara si concentrò su di lui, e non solo per evitare di percepire gli occhi di quegli uomini capaci di incanalare che la seguivano. Mazrim Taim attirava lo sguardo. Era alto, con un naso fortemente aquilino e circondato da un’aria di forza fisica. Anche da un’aria di oscurità. Sedeva lì con le caviglie incrociate e un braccio che pendeva sopra il pesante bracciolo del trono, eppure sembrava pronto a uno scoppio di violenza. Cosa interessante, nonostante la sua giacca nera fosse ricamata con draghi gialli e blu che si avvolgevano attorno alle maniche dai gomiti ai polsini, lui non portava le spille sul colletto.