Duecento passi oltre il villaggio, l’ufficiale iniziò a disporre la sua formazione dove gli arcieri si erano già fermati e stavano aspettando con le frecce incoccate. Agitando la mano per dare indicazioni ai Tarabonesi alle sue spalle, si voltò per scrutare Lanasiet attraverso un cannocchiale. La luce del sole riverberò sulla superficie del tubo. Adesso il sole stava sorgendo. I Tarabonesi iniziarono a dividersi in maniera efficiente, con le punte delle lance scintillanti e tutte inclinate allo stesso angolo; uomini disciplinati che si disponevano in file ordinale da entrambi i lati degli arcieri. L’ufficiale si sporse per conversare con la sul’dam. Se avesse lasciato libere di agire lei e la damane, questo sarebbe potuto risultare comunque in un disastro. Ovviamente sarebbe potuto esserlo anche se non l’avesse fatto. Gli ultimi dei Tarabonesi, quelli che erano arrivati tardi, cominciarono a disporsi in una fila a cinquanta passi dietro gli altri, conficcando le loro lance con la punta in basso nel terreno e tirando fuori dalle loro custodie gli archi da sella assicurati dietro di loro. Lanasiet stava facendo avanzare i suoi uomini al galoppo, maledizione a lui.
Voltando la testa per un momento, Ituralde parlò abbastanza forte perché gli uomini dietro di lui lo udissero. «State pronti.» Il cuoio delle selle cigolò mentre gli uomini raccoglievano le loro redini. Poi mormorò un’altra preghiera per i morti e sussurrò: «Ora.»
Come un sol uomo, i trecento Tarabonesi nella lunga fila, i suoi Tarabonesi, sollevarono gli archi e scoccarono. Non ebbe bisogno del cannocchiale per vedere la sul’dam, la damane e l’ufficiale tutt’a un tratto trafitti dalle frecce. Vennero proprio sbalzati dalle loro selle da quasi una dozzina di esse che colpirono contemporaneamente. Dare quell’ordine era stato una sofferenza, ma le donne erano gli individui più pericolosi su quel campo. Il resto di quella raffica abbatte buona parte degli arcieri e sgombrò un po’ di selle, e mentre ancora gli uomini crollavano al suolo venne lanciata una seconda salva, atterrando gli arcieri rimasti e svuotando altre selle.
Colti di sorpresa, i Tarabonesi leali ai Seanchan provarono a combattere. Fra quelli ancora in sella, alcuni voltarono i loro destrieri e abbassarono le lance per caricare gli assalitori. Altri, forse in preda all’irrazionalità che poteva impossessarsi degli uomini in battaglia, lasciarono cadere le loro lance e tentarono di liberare gli archi da sella dalla custodia. Ma una terza selva li investì, frecce dalla punta a cuspide che a quella distanza si conficcarono attraverso la corazza; a quel punto i sopravvissuti parvero rendersi conto di essere tali. Molti dei loro compagni giacevano inerti sul terreno o si sforzavano di mettersi in piedi pur trapassati da due o tre dardi. Quelli ancora a cavallo erano in netta minoranza rispetto agli avversari. Alcuni uomini fecero voltare i loro animali e, in un lampo, fuggirono verso sud inseguiti da un’ultima scarica di frecce che ne abbatté altri.
«Fermi» mormorò Ituralde. «Fermi così.»
Una manciata degli arcieri a cavallo scoccò di nuovo, ma il resto si astenne saggiamente. Avrebbero potuto ucciderne qualche altro prima che il nemico tosse oltre la loro portata, ma quel gruppo era sconfitto e presto loro avrebbero cominciato a contare ogni freccia. Cosa più importante, nessuno dei suoi uomini si era lanciato all’inseguimento.
Lo stesso non si poteva dire per Lanasiet. Con i mantelli che svolazzavano, lui e i suoi duecento uomini si precipitarono dietro a quelli che scappavano. Ituralde si immaginò di poterli sentire strillare; cacciatori sulla pista di una preda in fuga.
«Suppongo che sia l’ultima volta che vedremo Lanasiet, mio signore» disse Jaalam, accostando il suo grigio accanto a Ituralde, che si strinse un poco nelle spalle.
«Forse, mio giovane amico. Potrebbe riacquistare il senno. In ogni caso, non ho mai pensato che i Tarabonesi sarebbero tornati nell’Arad Doman con noi. E tu?»
«No, mio signore,» replicò l’uomo più alto «ma pensavo che il suo onore avrebbe retto per questo primo combattimento.»
Ituralde sollevò il cannocchiale per guardare Lanasiet, che ancora galoppava forte. L’uomo era andato, ed era improbabile che riacquistasse un senno che non possedeva. Un terzo della sua forza era scomparsa, proprio come se quella damane li avesse uccisi. Vi aveva fatto conto per qualche altro giorno. Avrebbe dovuto modificare di nuovo i suoi piani, forse cambiare il prossimo bersaglio. Scacciando Lanasiet dai suoi pensieri, spostò il cannocchiale per dare un’occhiata al punto in cui quella gente era stata travolta ed emise un borbottio di sorpresa. Non c’erano cadaveri calpestati. Amici e vicini dovevano essere usciti per portarli via, anche se, con una battaglia alle soglie del villaggio, questo pareva altrettanto improbabile quanto che quelle stesse persone si fossero alzate e allontanale dopo il passaggio dei cavalli.
«È il momento di andare a bruciare tutte quelle belle scorte seanchan» disse infilando il cannocchiale nella custodia di cuoio legata alla sua sella. Indossò il suo elmo e spronò Saldo giù per la collina, seguito da Jaalam e dagli altri incolonnati due a due. Solchi di carri e sponde infossate indicavano un guado nel torrente orientale. «Jaalam, dì ad alcuni uomini di avvisare la gente del villaggio di cominciare a spostare quello che vogliono conservare. Avvertiteli di iniziare con le case più vicine all’accampamento.» Dove il fuoco poteva propagarsi da un lato, poteva farlo anche dall’altro, e probabilmente sarebbe accaduto.
In realtà lui aveva già appiccato l’incendio più importante.
Aveva soffiato sulle prime braci, perlomeno. Se la Luce risplendeva su di lui, se nessuno si era fatto prendere dall’impazienza o aveva ceduto allo sconforto per la stretta che i Seanchan avevano su Tarabon, se nessuno era incappato nei contrattempi che potevano rovinare il piano meglio congegnato, oltre ventimila uomini avevano inflitto colpi come quello o l’avrebbero fatto prima della fine della giornata. E l’indomani l’avrebbero ripetuto di nuovo. Ora quello che doveva fare era tornare indietro saccheggiando per più di quattrocento miglia di Tarabon, liberandosi di Fautori del Drago tarabonesi e radunando i suoi stessi uomini, poi riattraversare la Piana di Almoth. Se la Luce lo avesse illuminato, quell’incendio avrebbe strinato i Seanchan tanto da indurli a inseguirlo in preda alla furia. Una furia enorme, sperava. In quel modo sarebbero caduti a capofitto nella trappola che lui aveva predisposto prima ancora di sapere che si trovava lì. Se non l’avessero seguito, allora perlomeno avrebbe liberato la sua terra dai Tarabonesi e avrebbe vincolato i Fautori del Drago domanesi a combattere per il re invece che contro di lui. E se avessero fiutato la trappola... Scendendo lungo il pendio, Ituralde sorrise. Se avessero fiutato la trappola, lui aveva già predisposto un altro piano, e dopo quello un altro ancora. Guardava sempre avanti e pianificava sempre per ogni eventualità che riusciva a immaginare, eccezion fatta per il Drago Rinato in persona che fosse comparso all’improvviso davanti a lui. I suoi piani attuali per il momento sarebbero stati sufficienti, pensò.
La Somma Signora Suroth Sabelle Meldarath giaceva sveglia a letto con lo sguardo fisso verso il soffitto. Il cielo era senza luna e le trifore che davano su un giardino del palazzo erano buie, ma i suoi occhi si erano adattati in modo da poter vedere almeno il contorno dell’intonaco adornato e dipinto. Non mancava più di un’ora o due all’alba, eppure lei non aveva dormito. Era rimasta sveglia la maggior parte delle notti da quando Tuon era scomparsa, dormendo solo quando la spossatezza le faceva chiudere gli occhi per quanto lei si sforzasse di tenerli aperti. Il sonno portava incubi che lei desiderava poter dimenticare. Ebou Dar non era mai davvero fredda, ma la notte aveva in sé una lieve frescura che la aiutava a restare sveglia, stesa soltanto sotto un sottile lenzuolo di seta. La domanda che guastava i suoi sogni era semplice e diretta. Tuon era viva o morta?