«Ti stai facendo coraggio, Liandrin?» chiese Suroth in tono severo. Quei capelli color miele, raccolti in treccine, erano stati sufficienti a rivelare la sua identità.
Con uno squittio, la da’covale cadde in ginocchio e si chinò per premere il volto contro il tappeto. Quello lo aveva imparato, perlomeno. «Sai che non ti farei del male, Somma Signora» mentì. «Sai che non lo farei.» La sua voce era frettolosa, carica di affannoso panico. Imparare quando parlare e quando tacere pareva andare oltre le sue capacità proprio come imparare a parlare col dovuto rispetto. «Siamo entrambi vincolati a servire il Signore Supremo, Somma Signora. Non ho dimostrato di essere utile? Ho eliminato Alwhin per te, sì? Hai detto di volerla morta, Somma Signora, e io l’ho eliminata.»
Suroth fece una smorfia e si mise a sedere al buio, lasciando scivolare il lenzuolo fino in grembo. Era così facile dimenticare che i da’covale erano lì, perfino questa da’covale, e poi ti lasciavi sfuggire cose che non avresti dovuto. Alwhin non era stata pericolosa, semplicemente una seccatura, maldestra nella sua posizione come Voce di Suroth. Aveva ottenuto quanto voleva nel raggiungerla e le probabilità che la rischiasse per qualcosa come un insignificante tradimento erano state scarse. Certo, se si fosse rotta il collo cadendo da una rampa di scale, Suroth avrebbe provato un certo sollievo come liberarsi da un’irritazione, ma il veleno che aveva lasciato la donna con gli occhi strabuzzati e il volto bluastro era un’altra faccenda. Perfino con la ricerca di Tuon in corso, questo aveva fatto rivolgere gli occhi dei Cercatori sulla residenza di Suroth. Lei era stata costretta a insistere su questo, per l’assassinio della sua Voce. Accettava che ci fossero Ascoltatori in casa sua; ogni palazzo aveva la sua parte di Ascoltatori. I Cercatori non si limitavano ad ascoltare, però, e avrebbero potuto scoprire quello che doveva rimanere nascosto.
Mascherare la sua rabbia richiese uno sforzo sorprendente e il suo tono fu più freddo di quanto voleva. «Spero che tu non mi abbia svegliato semplicemente per supplicare ancora, Liandrin.»
«No, no!» La sciocca sollevò la testa e la guardò proprio dritto negli occhi! «È arrivato un ufficiale da parte del generale Caigan, Somma Signora. Attende di condurti dal generale.»
La testa di Suroth pulsò per l’irritazione. Quella donna ritardava la consegna di un messaggio da Caigan e la guardava negli occhi? Al buio, certo, eppure lei fu assalita dall’impulso di strangolare Liandrin con le sue nude mani. Una seconda morte subito dopo la prima avrebbe intensificato l’interesse dei Cercatori nella sua casa, se ne fossero venuti a conoscenza, ma Elbar poteva sbarazzarsi facilmente del cadavere: era abile in compiti del genere.
Ma gradiva talmente possedere l’ex Aes Sedai che un tempo era stata così altezzosa con lei. Renderla una perfetta da’covale sotto ogni aspetto sarebbe stato un enorme piacere. Era tempo di mettere il collare alla donna, però. Fra i suoi servitori stavano già circolando voci irritanti su una marath’damane senza collare. Per le sul’dam sarebbe stata una sorpresa passeggera scoprire che Liandrin era schermata in qualche modo così da non poter incanalare, tuttavia questo avrebbe aiutato a rispondere alla domanda del perché non le fosse stato messo il collare prima. Elbar avrebbe dovuto trovare una qualche Atha’an Shadar fra le sul’dam, però. Quello non era mai un compito semplice: relativamente poche sul’dam si votavano al Signore Supremo — stranamente — e lei non si fidava più di nessuna sul’dam, ma forse si poteva contare sulle Atha’an Shadar più che sulle altre.
«Accendi due lampade, poi portami una vestaglia e delle pantofole» ordinò, spostando le gambe oltre il bordo del letto.
Liandrin si affrettò verso il tavolo sul quale si trovava la ciotola in ceramica munita di coperchio sul suo treppiede dorato e si lasciò sfuggire un sibilo quando la toccò con una mano incauta, ma fu rapida a utilizzare le pinze per tirar fuori un tizzone rovente. Vi soffiò sopra fino a farlo risplendere, poi accese due delle lampade argentate, regolando gli stoppini in modo che le fiammelle fossero costanti e non facessero fumo. La sua lingua poteva lasciar intendere che si sentiva pari a Suroth piuttosto che sua proprietà, ma la cinghia le aveva insegnato a obbedire ai comandi con solerzia. Voltandosi con una delle lampade in mano, sobbalzò ed emise un grido strozzato alla vista di Almandaragal che torreggiava nell’angolo, con i suoi occhi scuri e cerchiali da rilievi fissi su di lei. Come se non l’avesse mai visto prima! Tuttavia era uno spettacolo spaventoso, alto dieci piedi e pesante quasi duemila libbre, con la sua pelle glabra come cuoio marrone-rossastro, che fletteva le sue zampe anteriori a sei dita, così da estendere e ritrarre i suoi artigli, estenderli e ritrarli.
«Riposo» disse Suroth al lopar; un comando familiare, ma quello spalancò la bocca, mostrando denti aguzzi prima di accomodarsi di nuovo per terra e appoggiare la sua enorme testa tonda sulle zampe come un cane. Non richiuse gli occhi, però. I lopar erano piuttosto intelligenti, ed era chiaro che non si fidava di Liandrin più di quanto lo facesse Suroth.
Nonostante occhiate impaurite ad Almandaragal, la da’covale fu abbastanza lesta da andare a prendere pantofole di velluto blu e vestaglia di seta bianca con un intricato ricamo verde, rosso e blu dall’alto guardaroba intagliato, e la tenne tesa verso Suroth in modo che lei potesse infilare le braccia nelle maniche; ma Suroth dovette legare da sé la lunga fascia e poi protendere un piede prima che Liandrin si ricordasse di inginocchiarsi e calzarle le pantofole. Per i suoi occhi, quanto era incompetente quella donna!
Nella luce fioca, Suroth si guardò nello specchio dorato a figura intera addossato alla parete. I suoi occhi erano infossati e adombrati di stanchezza, la coda della sua cresta le pendeva lungo la schiena in una treccia floscia per aver dormito, e senza dubbio il suo scalpo aveva bisogno di un rasoio. Molto bene, il messaggero di Galgan avrebbe pensato che lei era addolorata per Tuon, e questo per certi versi era vero. Prima di ricevere il messaggio del generale, però, aveva ancora una piccola faccenda di cui occuparsi.
«Corri da Rosala e supplicala di picchiarti per bene, Liandrin» disse.
La stretta boccuccia della da’covale si spalancò e lei sgranò gli occhi dallo sconcerto. «Ma perché?» si lagnò. «Non ho fatto nulla, io.»
Suroth tenne impegnate le mani annodando la fascia più stretta per trattenersi dal colpire la donna. Avrebbe dovuto tenere gli occhi bassi per un mese se si fosse saputo che aveva colpito una da’covale di persona. Di certo non doveva delle spiegazioni alla proprietà, ma una volta che Liandrin fosse stata del tutto addestrala, le sarebbero mancate le opportunità di schiacciare la faccia della donna per rammentarle quanto era caduta in basso.
«Perché hai tardato a dirmi del messaggero del generale. Perché continui a chiamare te stessa ‘io’ invece di ‘Liandrin.’ Perché incroci il mio sguardo.» Non riuscì a fare a meno di sibilare quell’ultima frase, poi abbassò gli occhi sul pavimento, come se quello potesse mitigare la sua trasgressione.
«Perché hai messo in discussione i miei ordini invece di obbedire, lì, da ultimo — ultimo, ma per te più importante — perché io desidero che tu venga percossa. Ora corri e riferisci a Rosala tutte queste ragioni, in modo che possa picchiarti a dovere.»
«Liandrin sente e obbedisce, Somma Signora» piagnucolò la da’covale, facendo finalmente qualcosa di giusto, e si precipitò verso la porta così in fretta che perse una delle sue pantofole bianche. Troppo terrorizzata per voltarsi a raccoglierla o forse perfino per accorgersene — e buon per lei che lo fosse — aprì la porta raspando e fuggì. Mandare la proprietà a ricevere una punizione non avrebbe dovuto recare un senso di soddisfazione, ma lo fece. Oh, se lo fece.
Suroth si concesse un momento per controllare il proprio respiro. Apparire addolorata era una cosa, sembrare agitata era del tutto diverso. Era colma di irritazione verso Liandrin: sconvolgenti ricordi dei suoi incubi, timori per il destino di Tuon e ancor di più per il proprio, ma non seguì la da’covale finché il volto nello specchio non mostrò una calma totale.