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A meno che si fossero preoccupati e fossero scesi per cercarlo. A meno che avessero commesso un gesto così orribilmente stupido, per paura e per amore.

Le lacrime cominciarono a scorrergli sulle guance. Non erano certo Jen e Romy che potevano essere saliti sull’Hansford, aprendosi a forza un varco fra uomini armati di pistole, coltelli e pezzi di tubo. Non credeva che fossero tra i morti di quella nave. Era più probabile che fossero ancora sulla stazione Russell, dove adesso regnava la Confederazione. E lui era lì, e non poteva tornare indietro.

Alla fine si alzò, rassegnato. Fu il primo ad andarsene. Andò nell’alloggio che gli avevano assegnato, il dormitorio per gli uomini soli; molti erano giovani, e probabilmente molti erano sotto falso nome, e non erano i tecnici che sostenevano di essere. Trovò una branda libera e ritirò il pacco distribuito dal supervisore. Fece il bagno una seconda volta — gli sembrava di non lavarsi mai abbastanza — e tornò indietro, tra le file di uomini esausti e addormentati, e si sdraiò.

C’era il lavaggio del cervello per i prigionieri abbastanza altolocati che potevano essere di qualche utilità. Jen, pensò, oh, Jen… e il loro figlio, se era vivo, destinato ad essere allevato da un’ombra di Jen, che pensava solo ciò che era approvato e non contestava niente, sottoposta all’Adattamento perché era stata sua moglie. Non era neppure certo che le avrebbero lasciato Romy. C’erano gli asili di stato, che sfornavano i soldati e gli operai della Confederazione.

Pensò al suicidio. Alcuni avevano fatto questa scelta, piuttosto che imbarcarsi sulle navi dirette verso un luogo sconosciuto, una stazione che non era la loro. Quella soluzione non era nel suo carattere. Disteso, immobile, fissò il soffitto metallico nella semioscurità: e sopravvisse, come aveva fatto fino a quel momento, solo, anziano, completamente svuotato.

CAPITOLO QUARTO

PELL: 3/5/52

La tensione incominciò a manifestarsi all’inizio del primogiorno: i primi torbidi pellegrinaggi dei profughi alle cucine improvvisate sul molo, i primi tentativi, da parte di coloro che avevano i documenti e da parte di coloro che ne erano privi, di incontrarsi con i rappresentanti della stazione e di stabilire i diritti di residenza: la prima presa di coscienza delle realtà della quarantena.

— Avremmo dovuto andarcene all’ultimo turno — disse Graff, riesaminando i messaggi arrivati all’alba, — quando era ancora tutto tranquillo.

— Potremmo farlo — disse Signy. — Ma non possiamo rischiare Pell. Se loro non ce la fanno a mantenere l’ordine, dobbiamo riuscirci noi. Chiami il consiglio della stazione e comunichi che adesso sono pronta a incontrarmi con loro. Andrò io. È meno pericoloso che farli uscire sui moli.

— Prenda una navetta e giri intorno all’orlo — suggerì Graff, con la solita espressione preoccupata. — Non si azzardi a mettere il naso là fuori senza una squadra armata. Adesso sono meno controllati. Basta un niente perché esplodano.

La proposta era fondata. Signy si chiese che effetto avrebbe avuto, su Pell, una dimostrazione di timore da parte sua, e scrollò la testa. Tornò nel suo alloggio e indossò quella che passava per un’alta uniforme… almeno, era di colore blu scuro. Venne accompagnata da Di Janz e da una scorta di sei militari corazzati; attraversarono il molo e si presentarono al posto di blocco della quarantena, una porta e un corridoio accanto agli enormi portelli chiusi dell’intersezione. Nessuno cercò di avvicinarsi a lei, sebbene alcuni sembrassero averne l’intenzione ed esitassero alla vista delle guardie. Arrivò alla porta senza che nessuno la fermasse, e la varcò; salì la rampa e arrivò a un’altra porta sorvegliata, quindi scese nella parte principale della stazione.

Poi si trattò soltanto di prendere un ascensore per attraversare vari livelli e di arrivare nella sezione amministrativa, il corridoio azzurro superiore. Fu come cambiare mondo all’improvviso, dall’acciaio nudo dei moli e dell’area di quarantena a una galleria sorvegliata dagli uomini della sicurezza, a un vestibolo dalle pareti di vetro con i tappeti antisuono, dove bizzarre sculture in legno li accolsero come un gruppo di cittadini sbalorditi. Arte. Signy sbatté le palpebre, stupita da quel memento del lusso e della civiltà. Oggetti dimenticati, favolosi. Il tempo di creare ciò che non aveva altra funzione che la bellezza. Signy aveva passato tutta la sua esistenza isolata da cose come quelle; aveva solo saputo, da lontano, che esisteva la civiltà, e che le ricche stazioni serbavano oggetti di pregio nel loro cuore.

Ma non erano facce umane, quelle che la guardavano dagli strani globi dalla forma tozza fra le guglie di legno: erano facce estranee, con gli occhi tondi. Facce della Porta dell’Infinito, pazientemente scolpite nel legno. Gli umani avrebbero usato la plastica o il metallo.

E in verità vi era qualcosa non solo di umano: quel fatto era evidente nelle stuoie meticolosamente intrecciate, nei dipinti colorati che si allineavano in geometrie aliene intorno alle pareti, e le guglie e i globi lignei con le facce e gli occhi enormi, gli stessi volti ripetuti nei mobili scolpiti e persino sulle porte, nei dettagli più minuti, come se tutti quegli occhi volessero ricordare agli umani che la Porta dell’Infinito era sempre con loro.

Ne rimasero tutti impressionati. Di imprecò sottovoce, prima che raggiungessero l’ultima porta e i civili cerimoniosi li facessero entrare, accompagnandoli nella sala del consiglio.

Questa volta davanti a loro c’erano facce umane che li guardavano da sei file di sedie collocate su un lato e un tavolo ovale in mezzo; e a prima vista, le loro espressioni apparvero straordinariamente simili a quelle delle sculture aliene.

L’uomo canuto seduto all’estremità del tavolo si alzò, fece un gesto come per offrire loro la stanza in cui erano entrati. Angelo Konstantin. Gli altri restarono seduti.

E accanto al tavolo c’erano sei sedie che sembravano collocate appositamente, e in esse sedevano altrettanti individui, uomini e donne, che a giudicare dall’abbigliamento non facevano parte del consiglio della stazione e neppure delle Stelle Sperdute.

Erano dell’Anonima. Signy avrebbe potuto rimandare i soldati nell’anticamera, in un gesto di cortesia nei confronti del consiglio, liberarsi della minaccia dei fucili e della forza. Rimase immobile, senza rispondere al sorriso di Konstantin.

— Credo che potremo sbrigarcela in fretta — disse. — La vostra zona di quarantena è organizzata e funzionante. Vi consiglio di piazzare molte guardie armate. Vi avverto che altri mercantili sono partiti senza autorizzazione. Non facevano parte del nostro convoglio. È meglio che seguiate le mie raccomandazioni e che mandiate le squadre della sicurezza a bordo di ogni mercantile in arrivo, prima di lasciarlo avvicinare. Adesso avete un’idea di quello che è stato il disastro di Russell. Io me ne andrò al più presto; adesso il problema riguarda voi.

Ci fu un brusio preoccupato nella sala. Uno degli uomini dell’Anonima si alzò. — Si è comportata con molta disinvoltura, comandante Mallory. È consueto, da queste parti?

— È buona abitudine, signore, che chi conosce una situazione se ne occupi, e chi non la conosce stia a vedere e impari, oppure si tolga di torno.

Il volto magro del rappresentante dell’Anonima arrossì visibilmente. — A quanto pare, siamo costretti a tollerare questo tipo di atteggiamento… per ora. Abbiamo bisogno di un mezzo di trasporto che ci conduca verso quel che è rimasto del confine. La Norway è disponibile.

Signy trasse un profondo sospiro e si raddrizzò. — No, signore, non siete costretti a niente, perché la Norway non è disponibile per i passeggeri civili, e io non ne prenderò a bordo. In quanto al confine, il confine è dove si trova la flotta al momento, e solo le navi interessate sanno dove si trova. Non esiste nessun confine. Prenda a noleggio un mercantile.