— Quindi verranno qui — disse Emilio, sforzandosi di parlare con voce ferma. — Torneranno qui e vorranno farci lavorare per loro e costringerci a rimettere in funzione i mulini e i pozzi; e l’Anonima e la Confederazione continueranno a combattersi: ma Pell non è più tale, nelle loro mani, se quello che noi produciamo deve servire a riempire le loro stive. Se addirittura la nostra Flotta viene qui e ci costringe a lavorare sotto la minaccia delle armi… che cosa potremo aspettarci dalla Confederazione? Quando ci costringeranno a lavorare sempre di più, e nessuno di noi avrà il diritto di dire la sua? Tornate indietro, se volete, lavorate per Porey, finché arriverà la Confederazione. Io vado avanti.
— Dove, signore? — Era il ragazzo — Emilio ne aveva dimenticato il nome — che Hale aveva maltrattato il giorno dell’ammutinamento. C’era la madre con lui; la cingeva con un braccio. Non era una provocazione, ma soltanto una domanda.
— Non so — ammise Emilio. — Dove gli hisa ci diranno che potremo stare al sicuro, se esiste un posto simile. Per viverci. Per produrre quanto ci serve.
Un mormorio serpeggiò tra la folla. Paura… c’era sempre la paura sullo sfondo, per quelli che non conoscevano la Porta dell’Infinito, paura del pianeta, dei luoghi dove l’uomo era indifeso. Gli uomini che non si preoccupavano degli hisa, nella stazione, li temevano invece sul pianeta, dove gli umani erano svantaggiati, e gli hisa no. Un respiratore perduto, un guasto… era morte sicura, sulla Porta dell’Infinito. Il cimitero della base principale si era ingrandito di pari passo con lo sviluppo del campo.
— Nessun hisa ha mai fatto del male a un umano — disse Emilio. — Nonostante ciò che abbiamo fatto, e sebbene qui gli alieni siamo noi. — Scese dal camion, e allungò le mani per aiutare Miliko, sapendo che almeno lei era d’accordo. Miliko balzò a terra, senza discutere. — Possiamo sistemarvi nel campo laggiù — disse Emilio. — Possiamo fare almeno questo, per quelli che vogliono tentare con Porey. Vi metteremo in funzione i compressori.
— Signor Konstantin.
Emilio alzò la testa. Era una delle donne più vecchie, seduta sul camion.
— Signor Konstantin, sono troppo vecchia per lavorare tanto. Non voglio restare.
— Non vogliamo proseguire — disse una voce maschile.
— C’è qualcuno che torna indietro? — chiese uno dei capigruppo di Q. — Dobbiamo rimandare indietro un camion?
Silenzio. Molti scossero la testa. Emilio li guardò, stancamente. — Freccia — disse, fissando uno degli hisa che attendevano al limitare della foresta. — Dov’è Freccia? Ho bisogno di lui.
Freccia uscì dagli alberi, sul pendio della collina. — Voi venite — gridò Freccia, indicando la collina e il bosco. — Tutti venire adesso.
— Freccia, siamo stanchi. E abbiamo bisogno delle cose che ci sono sui camion. Se andiamo da quella parte non potremo portare i camion, e alcuni di noi non ce la fanno a camminare. Alcuni sono malati, Freccia.
— Noi portiamo malati, molti, molti hisa. Noi rubiamo cose buone su camion, insegnato noi bene, Konstantin-uomo. Noi rubiamo per voi. Voi venite.
Emilio si voltò a guardare gli altri, sgomenti e dubbiosi.
Gli hisa erano tutt’intorno. Uscirono dai boschi, sempre più numerosi; c’erano persino alcune femmine con i piccoli, che si facevano vedere raramente dagli umani. Era un segno di fiducia, il fatto che venissero tra loro. Forse tutti se ne resero conto, perché non vi furono proteste. Aiutarono i vecchi e i malati a scendere dai camion. Gli hisa più giovani e robusti scaricarono le provviste e il materiale.
— E se ci cercheranno? — mormorò preoccupata Miliko.
— Dobbiamo metterci al riparo, e presto.
— Occorre un rilevatore molto sensibile per distinguere gli umani dagli hisa. Forse non riterranno conveniente venirci a cercare… per ora.
Freccia lo raggiunse, lo prese per mano, e arricciò il naso nel gesto che per gli hisa equivaleva a una strizzata d’occhio.
— Tu vieni con noi.
Non riuscirono a camminare a lungo, anche se le notizie avevano dato a molti la forza della paura. Dopo aver risalito la collina ed essere ridiscesi tra i boschi e le paludi, erano tutti provati dalla fatica, e alcuni di quelli che si erano avviati con le loro gambe adesso erano costretti a farsi portare. Dopo un po’, anche gli hisa cominciarono a rallentare. E alla fine, quando si trovarono a dover trasportare un numero troppo grande di umani, chiesero una sosta e si sdraiarono per riposare.
— Trova un riparo — disse Emilio a Freccia. — Le navi ci vedranno. Non va bene, Freccia.
— Adesso dormire — disse Freccia, raggomitolandosi, e fu inutile cercare di scuotere lui e gli altri. Emilio rimase seduto a fissarlo, poi guardò il fianco della collina, dove gli umani e gli hisa erano sdraiati accanto ai loro fagotti, alcuni avvolti dalle coperte, altri troppo stanchi per avere la forza di srotolarle. Emilio usò la sua coperta come cuscino, si sdraiò su quella di Miliko, e la prese tra le braccia, sotto il sole che filtrava obliquo tra le foglie. Freccia si avvicinò e gli appoggiò un braccio sulla spalla. Emilio si lasciò andare e si addormentò, un sonno profondo e ristoratore.
Si svegliò quando Freccia lo scosse; Miliko era seduta, con il mento appoggiato sulle ginocchia. Una nebbia leggera inumidiva il fogliame; era quasi sera, il cielo era nuvoloso e minacciava pioggia. — Emilio, devi svegliarti. Credo che siano arrivati certi hisa molto importanti.
Emilio si appoggiò a terra e si mise in ginocchio, scrutando nella nebbia fredda, mentre altri umani si svegliavano intorno a lui. Erano tre Vecchi, usciti dagli alberi; hisa con il pelame abbondantemente spruzzato di bianco. Si alzò e s’inchinò. Gli sembrava giusto, poiché era nel loro territorio e nella loro foresta.
Freccia fece anch’egli un inchino. Sembrava più serio del solito. — Non parlano lingua umana, loro — disse Freccia. — Dicono andare con loro.
— Veniamo — disse Emilio. — Miliko, sveglia gli altri.
Miliko andò a svegliare i pochi che ancora dormivano, e la notizia si sparse giù per la collina. Gli umani stanchi e infreddoliti si scossero, e raccolsero i loro bagagli. Stavano arrivando altri due hisa. I boschi ne sembravano pieni: ogni tronco pareva nascondere un’agile figura bruna.
I Vecchi si dileguarono tra gli alberi. Freccia attese fino a quando furono pronti, e poi si avviò; Emilio si caricò sulle spalle la coperta di Miliko e lo seguì.
Appena un umano zoppicava, passando tra le foglie e i rami sgocciolanti, c’erano hisa pronti ad aiutarlo, a prenderlo per mano con esclamazioni d’incoraggiamento, anche quelli che non capivano la lingua degli umani; e dietro di loro venivano altri, i ladri hisa, che portavano la cupola gonfiabile, i compressori, i generatori, i viveri e tutto quello che era stato possibile prelevare dai camion, anche se forse non sapevano a cosa servisse quella roba, come un’orda bruna di laboriose formiche.
Scese la notte, e camminarono ancora attraverso i boschi, riposando quand’era necessario; ma gli hisa li guidavano perché nessuno si perdesse, e si stringevano intorno a loro quando si fermavano, e il freddo, allora, diventava meno pungente.
E a un certo momento si sentì nel cielo un tuono che non aveva nulla a che fare con la pioggia.
— Un atterraggio. — L’annuncio passò di bocca in bocca. Gli hisa non fecero domande. Con il loro udito acutissimo, dovevano essersene accorti da un pezzo.
Porey stava tornando. Probabilmente era Porey. Per un po’ avrebbero esplorato la base deserta e inviato messaggi rabbiosi a Mazian. Avrebbero chiesto i rilevamenti, avrebbero deciso sul da farsi e avrebbero domandato l’approvazione di Mazian… tutto tempo consumato a loro vantaggio.