— I fucili — protestò Miliko. — I fucili, Freccia.
— Voi sicuri. — Freccia s’interruppe per ascoltare quello che stava dicendo uno degli anziani. — Facciamo voi nomi: chiamiamo tu Lui-torna-ancora; chiamiamo te: Lei-tende-le-mani. To-he-me; Mihan-tisar. Voi buoni spirito. Voi sicuri venire qui. Vi vogliamo bene. Bennett-uomo, lui insegnato noi sognare sogni umani; ora voi venuti insegnamo voi sogni hisa. Noi vi vogliamo bene, vi vogliamo bene, To-he-me, Mihan-tisar.
Emilio non sapeva cosa dire; alzò gli occhi verso le enormi immagini che fissavano il cielo, si guardò intorno, e scrutò la massa che sembrava estendersi a perdita d’occhio, e per un momento si sorprese a credere che fosse possibile, che quel luogo impressionante potesse incutere timore a ogni nemico che vi giungesse.
Si levò un canto: intonato dapprima dai Vecchi, fu ripreso dagli hisa più vicini e poi dalle file sempre più lontane. Gli hisa cominciarono a ondeggiare, rispettando il ritmo.
— Bennett… — ripeteva più volte quella nenia.
— Lui insegna noi sognare sogni umani… chiamare te Lui-torna-ancora.
Emilio rabbrividì e cinse Miliko con un braccio, in quel mormorio ossessivo che era come il suono di un martello sul bronzo, il sospiro di un immane strumento che riempiva tutto il cielo nel crepuscolo.
Finalmente il sole tramontò. Con la scomparsa della luce arrivò il freddo e il sospiro di innumerevoli gole che spezzò il canto. Poi spuntarono le stelle, che attirarono cenni e grida sommesse di gioia.
— Nome suo Lei-viene-prima — disse Freccia, e nominò le stelle, una dopo l’altra, mentre gli occhi acuti degli hisa le spiavano, riconoscendole come amiche che ritornavano. Cammina-insieme; Viene-in-primavera; Lei-danza-sempre…
La cantilena riprese vita, in tono più sommesso, mentre gli hisa continuavano a ondeggiare.
La stanchezza cominciò a far sentire i suoi effetti. Miliko aveva gli occhi vitrei; Emilio cercava di sorreggerla, di restare sveglio, ma anche gli hisa ciondolavano, e Freccia batté le mani sulle loro spalle, fece capire che era permesso riposare.
Emilio si addormentò, ma dopo un poco si svegliò, e vide che accanto a loro c’erano cibi e bevande. Sollevò la maschera per mangiare e bere, alternando ad ogni morso una boccata d’ossigeno. Altrove, i pochi che erano svegli si muovevano nella moltitudine addormentata, e nonostante quella pace sognante, riuscivano a soddisfare i loro bisogni materiali. Anche Emilio si allontanò, passando attraverso la folla immensa, oltre la cerchia in cui dormivano altri umani, dove gli hisa avevano scavato appositi canali per le necessità igieniche. Si soffermò per un poco ai bordi del campo, fino a quando sopraggiunsero altri e lui ritrovò il senso del tempo, voltandosi a guardare le immagini, il cielo stellato e la folla dormiente.
La soluzione degli hisa. Starsene lì seduti sotto la volta celeste, e dire al cielo e agli dèi… guardateci… noi speriamo. Sapeva di essere pazzo; e smise di aver paura per sé, persino per Miliko. Attendevano un sogno, tutti quanti, e se gli uomini potevano puntare le armi sui miti sognatori della Porta dell’Infinito, allora non c’era più speranza. Gli hisa li avevano disarmati così, all’inizio… senza alcun sotterfugio.
Tornò verso Miliko, verso Freccia e gli anziani, stranamente convinto che fossero salvi, per ragioni che non avevano nulla in comune con la vita e con la morte, in quel luogo immutabile da millenni, e che aveva atteso molto a lungo prima che venissero gli uomini a guardare verso il cielo.
Sedette accanto a Miliko, si sdraiò e guardò le stelle, e pensò alle possibilità.
E al mattino scese una nave.
Non vi fu panico, tra le decine di migliaia di hisa. Non ve ne fu tra gli umani che sedevano in mezzo a loro. Emilio si alzò, tenendo per mano Miliko, e guardò la nave che si posava, lontano nella valle, dove poteva trovare un tratto sgombro.
— Dovrei andare a parlare con loro — disse agli anziani, tramite Freccia.
— No parlare — rispose placidamente il più vecchio. — Aspetta. Sogna.
— Chissà — osservò placidamente Miliko, — se davvero vogliono coinvolgere tutta la Porta dell’Infinito negli affari della stazione.
Altri umani s’erano alzati. Emilio sedette accanto a Miliko, e a poco a poco anche gli altri cominciarono a sedersi, per attendere.
E dopo molto tempo venne la voce lontana di un altoparlante.
— Qui ci sono umani — tuonò sulla pianura una voce metallica. — Siamo dell’Africa. Il responsabile è pregato di farsi avanti e di identificarsi.
— No — lo supplicò Miliko, quando Emilio si mosse per alzarsi. — Potrebbero sparare.
— Potrebbero sparare se non andassi a parlare con loro. In mezzo alla folla. Ci tengono in pugno.
— C’è Emilio Konstantin? Ho notizie per lui.
— Conosciamo già le vostre notizie — mormorò lui, e quando Miliko fece per alzarsi la trattenne per le braccia. — Miliko… devo chiederti una cosa.
— No.
— Resta qui. Io devo andare; è quello che vogliono… che la base ricominci a lavorare. Lascerò qui quelli che non si troveranno bene sotto Porey: quasi tutti. Ho bisogno che tu resti qui, per occuparti di loro.
— È un pretesto.
— No. E sì. Per tenerli insieme. Per combattere una guerra, se si arriverà a questo. Per restare con gli hisa e metterli in guardia, e tenere gli stranieri lontano da questo mondo. Di chi potrei fidarmi? Chi capirebbero, gli hisa, come capiscono te e me? Gli altri dirigenti? — Emilio scrollò la testa, la fissò negli occhi scuri. — C’è un modo di lottare. Come fanno gli hisa. E io tornerò indietro, se è questo che vogliono. Credi che desideri lasciarti? Ma chi altri c’è? Fallo per me.
— Ti capisco — disse lei, con un filo di voce. Emilio si alzò. Anche Miliko si alzò insieme a lui, l’abbracciò e lo baciò, e per lui divenne più difficile lasciarla. Poi si tolse la pistola dalla tasca e la consegnò a lei. L’altoparlante era entrato di nuovo in funzione, ripetendo il messaggio. — Personale dirigente! — gridò Emilio. — Ho bisogno di volontari.
Il grido venne ripetuto. Arrivarono, dal limitare della folla, da un comando di base e da un altro, e dalla base principale. Ci volle diverso tempo. Le truppe che erano avanzate a portata di voce dall’altra parte si fermarono, perché sicuramente potevano vedere il movimento, e la forza e il fattore tempo erano dalla loro parte.
Emilio disse ai suoi di voltare le spalle in quella direzione e di avvicinarsi a lui: probabilmente li stavano osservando. Gli hisa più vicini alzarono la testa incuriositi, sgranando gli occhi.
— Vogliono personale — disse Emilio, sottovoce. — E vogliono che i danni vengano riparati. Sono qui per questo. Schiene robuste. Rifornimenti. Forse a loro interessa solo la base principale, perché non possono servirsi delle altre. Non credo che possiamo chiedere ai Q di tornare indietro, dopo il modo in cui si è comportato Porey prima che ce ne andassimo. È questione di tempo; dobbiamo resistere, raccogliere abbastanza uomini per fermare un’eventuale azione contro la Porta dell’Infinito… o semplicemente per vivere. Mi capite? Secondo me, vogliono l’approvvigionamento per le loro navi, e viveri per la stazione; e finché l’avranno… riusciremo a cavarcela. Aspetteremo che la situazione si risolva da sé, sulla stazione, e salveremo quel che potremo. Voglio gli uomini più robusti di ogni unità, i più forti, che possano fare di più e sopportare di più e tenere i nervi a posto… lavorare nei campi, non so che altro. Forse un arruolamento forzato. Non lo sappiamo. Ho bisogno di una sessantina di uomini per ogni base, più o meno tutti quelli che potranno portare con loro, credo.
— Va anche lei?
Emilio annuì. Gli altri annuirono, riluttanti, a cominciare da Jones. — Io andrò — disse Ito; tutti gli ufficiali delle basi s’erano offerti volontari. Emilio scrollò la testa. — No — disse. — Le donne devono restare tutte qui, agli ordini di Miliko. Tutte. Niente discussioni. Fate passare parola. Sessanta volontari per base. E in fretta. Quelli non aspetteranno in eterno.