Josh guardò. I battenti massicci erano chiusi. L’accesso del personale, là accanto, non era aperto. Non si apriva.
— Non li lasceranno passare — disse Damon. — Era un trucco, per radunare là quelli che si erano rifugiati nei moli.
— Torniamo indietro — supplicò Josh.
Qualcuno sparò; dalla loro parte, i militari… i proiettili sibilarono sopra le loro teste e si conficcarono nelle facciate dei negozi. La gente urlò, spinse, e loro fuggirono insieme agli altri, lungo il molo, nel nove, corsero nel locale di Ngo, mentre il caos proseguiva nel corridoio. Qualcun altro cercò di seguirli, ma Ngo agitò un bastone e li scacciò, imprecando contro loro due perché si erano portati dietro quella gente.
Chiusero la porta, ma fuori la folla pensava soltanto a fuggire: la linea di minor resistenza. Le luci del locale aumentarono d’intensità, offrendo uno spettacolo di sedie rovesciate e piatti sparsi dappertutto.
In silenzio, Ngo, la moglie e il figlio cominciarono a ripulire. — Tieni — disse Ngo a Josh, porgendogli uno straccio bagnato. Ngo lanciò una seconda occhiata a Damon, ma non gli diede ordini: un Konstantin aveva ancora qualche privilegio. Ma Damon cominciò a raccattare i piatti, a rialzare le sedie e a pulire come gli altri.
Fuori tornò il silenzio; di tanto in tanto qualcuno bussava alla porta. Molte facce li guardavano attraverso la vetrata di plastica; era gente che voleva entrare, gente esausta e spaventata che voleva bere.
Ngo aprì la porta, e urlando e imprecando li lasciò entrare; poi si piazzò al banco e cominciò a distribuire da bere, senza badare al credito, per il momento. — Pagate — avvertì. — Sedetevi e faremo gli scontrini. — Alcuni se ne andarono senza pagare; altri sedettero. Damon prese una bottiglia di vino e trascinò Josh a un tavolo d’angolo. Era il loro solito posto, che permetteva di vedere la porta d’ingresso e di raggiungere senza difficoltà la cucina e il loro nascondiglio. Il comunicatore aveva ricominciato a trasmettere musica, una musica rasserenante e romantica.
Josh si prese la testa tra le mani e si augurò di trovare il coraggio di ubriacarsi. Non era possibile. C’erano i sogni. Damon bevve. Alla fine sembrò che fosse abbastanza, perché gli occhi di Damon avevano assunto quell’espressione velata e torpida che lui gli invidiava.
— Domani uscirò — disse Damon. — Sono rimasto fin troppo a lungo in quella tana… Uscirò, e magari parlerò con qualcuno, cercherò di prendere qualche contatto. Deve esserci qualcuno che non è uscito dal verde. E che deve qualche favore alla mia famiglia.
Aveva già tentato di farlo. — Ne parleremo — disse Josh.
Il figlio di Ngo portò loro il pranzo, un piatto di spezzatino. Josh ne assaggiò un po’, poi urtò Damon con il piede. Damon prese la forchetta e mangiò, ma sembrava che continuasse a pensare ad altro.
Elene, forse. Qualche volta Damon pronunciava il suo nome nel sonno. Qualche volta pronunciava il nome di suo fratello. O forse pensava ad altre cose, ad amici perduti. Probabilmente morti. Non ne avrebbe parlato, Josh lo sapeva. Passavano lunghe ore in silenzio, ognuno perduto nei propri ricordi. Josh pensava ai suoi sogni più felici, a una strada assolata, ai polverosi campi di grano su Cyteen, alle persone che gli avevano voluto bene, le facce che aveva conosciuto, vecchi amici, vecchi camerati, in posti lontani. Passavano ore e ore in quel modo, le lunghe ore solitarie che ognuno di loro trascorreva nel nascondiglio, la notte, mentre la musica del locale di Ngo faceva vibrare le pareti per quasi tutto il primogiorno e l’altergiorno, monotona e insistente, o zuccherosa e insinuante. Loro dormivano nei momenti di silenzio, e negli altri restavano sdraiati, con lo sguardo nel vuoto. Josh non disturbava le fantasie di Damon, e Damon non disturbava le sue. Non ne negavano l’importanza, perché erano l’unico conforto di cui disponevano.
C’era una cosa a cui non pensavano più: la possibilità che uno di loro si consegnasse. Avevano davanti agli occhi la faccia di Lukas, il teschio che rivelava il modo in cui Mazian trattava i suoi fantocci. Se Emilio Konstantin era ancora vivo, come dicevano… Josh si chiedeva se fosse una buona o una cattiva notizia. E non lo diceva.
— Ho saputo — disse finalmente Damon, — che forse certi membri dell’equipaggio di Mazian sono disposti a farsi corrompere. Chissà, si potrebbe cercare di ottenere qualcosa di più di semplici beni di consumo. Se ci sono falle nel loro nuovo sistema…
— È pazzesco. Non è nel loro interesse. Non stai parlando di un sacco di farina. Fai quella domanda, e ce li troveremo addosso.
— Probabilmente hai ragione.
Josh rimase a fissare il bordo del piatto. Il tempo stava passando troppo in fretta, quello era il guaio. Con la chiusura del settore bianco… anche loro erano isolati. E adesso bastava un rastrellamento che partisse dal molo o da verde uno, per controllare quelli che erano disposti ad arrendersi e uccidere tutti gli altri.
Appena avessero sistemato il settore bianco… sarebbero venuti lì. Ormai avevano incominciato, e stavano per arrivare.
— Devo provare a contattare la Flotta — disse finalmente Josh. — È probabile che i militari riconoscano più facilmente te che me. Finché starò alla larga da quelli della Norway…
Damon tacque per un momento, riflettendo. — Lasciami fare un altro tentativo. Lasciami pensare. Dev’esserci un modo per salire sulle navette. Sentirò le squadre del molo, scoprirò chi ci lavora.
Non avrebbe funzionato. Era sempre stata un’idea pazzesca.
Un altro mercantile. Gli arrivi non erano inconsueti. Elene sentì la segnalazione, si alzò dalla cuccetta e andò a vedere che cosa aveva inquadrato Wes Neihart.
— Come vanno le cose? — chiese a tempo debito una voce sottile. Il mercantile era apparso a rispettosa distanza, per prudenza; avrebbe impiegato un po’ di tempo per allontanarsi dal punto d’uscita dal balzo. Elene sedette nel posto libero davanti allo schermo, tastando il cuscino. Era ingrossata, e questo le dava inconsciamente fastidio; era una seccatura che aveva imparato a sopportare. Buono, gli disse mentalmente, rabbrividì e fissò lo schermo. Altri Neihart si avvicinarono per osservare.
— C’è qualcuno disposto a rispondermi? — chiese il nuovo arrivato, molto più vicino.
— Datemi l’identificazione — disse la voce di un’altra nave. — Qui è la Little Bear. Voi chi siete? Venite avanti: basta che vi identifichiate.
L’intervallo fu ancora più breve; e altri mercantili avevano cominciato a muoversi. Sul ponte della Finity’s End si era raccolta una piccola folla.
— Non mi piace — borbottò qualcuno.
— Qui è la Genevieve, in arrivo dalla Confederazione, da Fargone. Si dice che qui stia succedendo qualcosa. Com’è la situazione?
— Lasciate che risponda io — intervenne un’altra voce. — Genevieve, qui è la Pixie II. Mi faccia parlare con il vecchio, d’accordo, giovanotto?
Il silenzio durò più a lungo del previsto. Il cuore di Elene cominciò a battere più forte. Si voltò per rivolgere un cenno goffo e convulso a Neihart, ma l’allarme generale era già in corso, e Neihart aveva passato il segnale al nipote, che stava al computer.
— Qui è Sam Denton della Genevieve — disse la voce, finalmente.
— Sam, qual è il mio nome?
— Ci sono soldati qui — balbettò la Genevieve, e la voce tacque all’improvviso. Elene allungò freneticamente la mano verso il comunicatore mentre era tutto un susseguirsi di ordini che intimavano l’alt, con la minaccia di aprire il fuoco.
— Genevieve. Genevieve, sono Quen dell’Estelle. Rispondete.