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Nessuno sparò. Le navi sullo schermo, centinaia di navi che fluttuavano entro il raggio del punto zero, cambiarono posizione per circondare l’intrusa.

— Qui il tenente Marn Oborsk della Confederazione — disse finalmente una voce. — A bordo della Genevieve. Questa nave verrà distrutta per evitare la cattura. I Demon sono a bordo. Confermi la sua identità. I Quen sono morti. L’Estelle è una nave morta. Che nave siete?

— Genevieve, non siete in condizioni di avanzare pretese. Fate uscire i Denton dalla loro nave.

Di nuovo una lunga pausa. — Voglio sapere con chi sto parlando.

Elene lasciò che il silenzio si prolungasse. Intorno a lei, sul ponte, c’era un’attività frenetica. I cannoni venivano puntati e le posizioni relative calcolate in base alla velocità, alla massa inerziale e al probabile uso dei reattori d’attracco. — Qui parla Quen. Chiediamo che facciate uscire i Denton da quella nave. Vi dico una cosa: se la Confederazione si azzarda a mettere le mani su un altro mercantile, si scatenerà l’inferno. E il porto di provenienza di qualunque nave che attacchi un mercantile o tenti di impadronirsene subirà le sanzioni della nostra alleanza. Ecco quello che sta succedendo. Guardi bene, tenente Oborsk. Siamo più numerosi delle vostre navi da guerra. Se volete che si continui a commerciare, d’ora innanzi dovrete trattare con noi.

— Che nave sta parlando?

Forse avrebbero dovuto cominciare a sparare, invece di parlare. Doveva tenerli bloccati. Elene si asciugò il viso e si voltò a lanciare un’occhiata a Neihart, che annuì: avevano inquadrato l’intrusa con il computer. — Le basti sapere che sono una Quen, tenente. Siamo molto più numerosi di voi. Come avete trovato questa zona? Avete costretto i Denton a rivelarlo? Oppure siete semplicemente entrati in contatto con la nave sbagliata? Le dirò una cosa: l’alleanza dei mercantili tratta come una sola unità. E se vuole guai a non finire, signore, provi a mettere le mani su un’altra delle nostre navi. Voi e la Flotta di Mazian potete sbranarvi quanto volete. Noi non siamo l’Anonima e non siamo la Confederazione. Siamo la terza parte in causa e d’ora innanzi negozieremo a nome nostro.

— Cosa sta succedendo, qui?

— Lei è autorizzato a negoziare o a inoltrare messaggi ai suoi superiori?

Vi fu un lungo silenzio.

— Tenente — continuò Elene, — quando negoziatori autorizzati saranno disposti a rivolgersi a noi, noi saremo pronti a discutere. Nel frattempo, abbia la cortesia di lasciare liberi i Denton. Se siete disposti a ragionare, saremo ragionevoli anche noi, altrimenti… se succederà qualcosa a qualcuno dei mercantili, ci saranno rappresaglie. Glielo assicuro.

Un lungo silenzio. — Qui Sam Denton — disse finalmente un’altra voce. — Mi è stato ordinato di riferirvi che la nave sta per tornare indietro e che a bordo c’è un congegno d’autodistruzione. Ho qui tutta la mia famiglia, Quen. È vero.

Il contatto s’interruppe. Elene lanciò un’occhiata al video e alla telemetria, vide il bagliore che ingigantiva per poi trasformarsi in un’ondata inequivocabile. Sentì una fitta allo stomaco, il bimbo si mosse… Si portò una mano sul ventre e fissò gli schermi in un momento di nausea, mentre continuavano ad arrivare le scariche.

Una mano si posò sulla sua spalla. Neihart.

— Chi ha sparato? — chiese Elene.

— Qui la Pixie II — disse una voce rude. — Ho sparato io. Stavano puntando la prua allo zenith, verso il varco, ed avevano acceso i motori. Avrebbero raccontato troppe cose.

— Ricevuto, Pixie.

— Noi andiamo — trasmise un’altra nave. — Andiamo a rastrellare l’area.

C’era almeno la possibilità che si fosse salvata una capsula… che i confederati avessero permesso ai giovani Denton di mettersi in salvo. Ma non c’erano molte speranze che una capsula fosse sopravvissuta a quell’esplosione.

Come l’Estelle a Mariner. Esattamente così. Non avrebbero trovato nulla.

Sullo schermo apparvero altri punti, presenze spettrali nell’oscurità, definiti soltanto come blip, o qualche volta dal guizzo delle luci o da un’ombra sul video, un’ombra che occultava le stelle. Erano amici… centinaia di navi che si portavano nell’area di ricerca. — Ormai ci siamo dentro — mormorò Neihart. — La Confederazione non se ne starà buona.

Ma lo sapevano tutti ormai, dal momento in cui la voce aveva incominciato a circolare, da quando i mercantili avevano cominciato a passare parola sull’origine e sul nome di chi li chiamava… una nave morta e un nome morto… in un disastro che tutti conoscevano. Era inevitabile che la Confederazione venisse a saperlo; ormai i confederati si erano accorti della strana assenza di navi nelle loro stazioni, e che i mercantili non arrivavano come previsto. Forse erano spaventati, poiché quelle sparizioni avvenivano in zone dove non potevano esserci azioni militari, ora che Mazian era bloccato a Pell. La Confederazione s’era appropriata di varie navi — ne avevano la prova, adesso — e prima di arrivare fin lì, quella nave forse aveva comunicato la rotta ad altre. La prossima mossa sarebbe stata l’invio di una nave da guerra… se la Confederazione poteva distaccarne una da Pell.

E la notizia non si era diffusa soltanto nello spazio della Confederazione. Era arrivata a Sol… perché la Winifred aveva ricordato i suoi legami con la Terra, e aveva abbandonato il carico, liberandosi del peso per balzare il più lontano possibile… aveva intrapreso quel viaggio lungo e incerto, verso un’accoglienza che non si erano immaginati. — Parlate loro di Mariner — aveva chiesto Elene. — E di Russell e di Viking e di Pell. Fate in modo che capiscano. — E loro l’avevano fatto, perché un tempo erano appartenuti alla Terra. Ma era soltanto un gesto. Non stava arrivando nessuna risposta.

Non trovarono una capsula, ma soltanto un ammasso di rottami.

PORTA DELL’INFINITO: SANTUARIO HISA 6/1/53; NOTTE LOCALE

Gli hisa avevano continuato il loro andirivieni fin dall’inizio, una tranquilla migrazione intorno al raduno ai piedi delle statue, un movimento silenzioso, discreto e reverente, per rispetto ai sognatori raccolti là a migliaia. Erano venuti di giorno e di notte, portando viveri e acqua, sbrigando le piccole cose necessarie.

Adesso c’erano cupole per gli umani, e scavi fatti dagli indigeni; i compressori palpitavano, e le cupole improvvisate erano sgraziate, ma servivano a riparare i vecchi e i bambini, e tutti gli altri, mentre la breve estate lasciava il posto all’autunno e i cieli si rannuvolavano e i giorni di sole e le notti limpide erano meno numerosi.

Sopra le loro teste sfrecciavano le navette, adibite ad un continuo lavoro di spola: ma c’erano abituati, e non avevano più paura.

Non dovete radunarvi neppure nei boschi, aveva spiegato Miliko agli anziani, per mezzo degli interpreti. I loro occhi vedono il calore, anche tra gli alberi. La terra profonda può nascondere gli hisa, oh, molto profonda. Ma loro vedono anche quando non brilla il Sole.

Gli indigeni avevano sgranato gli occhi. Avevano parlato tra loro. I Lukas, avevano borbottato. Ma sembrava che avessero capito.

Miliko aveva parlato ogni giorno con gli anziani, fino a diventare rauca e a far impazzire gli interpreti; aveva cercato di far capire loro cosa si trovavano a fronteggiare; e quando si stancava, le mani aliene le battevano affettuosamente sulle braccia e sul viso, e gli occhi tondi la guardavano con profonda tenerezza… qualche volta era tutto ciò che potevano fare.

E gli umani… Miliko andava da loro, la notte. C’erano Ito, ed Ernst e gli altri, che diventavano sempre più cupi… Ito, perché tutti gli altri ufficiali erano andati con Emilio; ed Ernst, un ometto minuto, perché non era stato prescelto; e uno degli uomini più forti di tutti i campi, Ned Cox, che non si era offerto volontario… e cominciava a vergognarsene. C’era una specie di contagio che si diffondeva tra loro, forse era vergogna, quando sentivano le notizie della base principale, che erano sempre sconfortanti. Un centinaio di persone erano sedute davanti alle cupole, accettando il freddo e il disagio dei respiratori, come se rifiutassero le comodità per dimostrare qualcosa a se stessi e ai loro compagni. Erano diventati taciturni, e i loro occhi, dicevano gli indigeni, erano luminosi e freddi. Giorno e notte… in quel santuario, nel luogo dove sorgevano le sacre statue degli hisa… sedevano davanti alle cupole in cui altri vivevano, altri ben lieti di prendere il loro posto… perché non potevano entrarci tutti insieme. Restavano perché dovevano: ogni diserzione sarebbe stata notata da lassù. Avevano scelto quel rifugio, e non potevano far altro che restare lì e pensare agli altri. A pensare. A valutare se stessi.