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Riposava solo quando era assolutamente necessario; a un certo punto cadde, perché aveva camminato troppo a lungo, e le hisa si affrettarono a rialzarla e ad accarezzarle il viso e i capelli. La tenevano vicina, proteggendola con il loro calore, perché il cielo si stava rannuvolando e il vento era freddo. Cominciò a piovere.

Miliko si alzò appena fu in grado di farlo, e si ostinò a procedere alla loro andatura. — Brava, brava — le dissero. — Tu brava. — E nel pomeriggio incontrarono altri: altre femmine e due maschi. Uscirono all’improvviso dal bosco, sotto gli alberi e le fronde come ombre brune nella pioggerella, con le gocce d’acqua che brillavano come gemme sul pelame. Bisbiglio e Svelta parlarono con i nuovi venuti, tenendo stretta Miliko, e riferirono la risposta.

— Dicono… camminato lontano loro posto. Sentire. Venire. Molti venire. Loro occhi caldi vedere te, Mihan-tisar.

Erano dodici. Ad uno ad uno vennero a toccare le mani di Miliko e ad abbracciarla, e s’inchinarono con solenne cortesia. Bisbiglio parlò a lungo, ottenendo lunghe risposte dall’uno e dall’altro.

— Loro vedono — disse Svelta, ascoltando mentre Bisbiglio parlava. — Loro vedono posto umano. Hisa là soffrono. Umani soffrono.

— Dobbiamo andare là — disse Miliko, toccandosi il cuore. — Tutti miei umani vanno là, siedono su colline, osservano. Voi capite? Sentite bene?

— Sentito — disse Svelta, e sembrò che traducesse agli altri.

Gli altri si avviarono, precedendoli; e Miliko non sapeva che cosa avrebbe fatto, quando fossero arrivati là. La follia di Ito e degli altri la spaventava. Sei pistole non bastavano per impadronirsi di una navetta, e non sarebbero bastati tutti gli altri, una volta arrivati… impotenti di fronte a truppe armate e corazzate. Potevano soltanto osservare, essere presenti, e sperare.

Camminarono per tutto il giorno, sotto la pioggia che filtrava fredda tra le fronde, e il vento che faceva cadere le gocce su di loro quando smise di piovere. I torrenti si erano ingrossati. Si addentrarono nella vegetazione sempre più fitta.

— Posto umano — ricordò finalmente Miliko, disperata. — Dobbiamo andare al campo umano.

— Andiamo posto umano — confermò Bisbiglio, e dopo un attimo sparì, sgattaiolando tra i cespugli così velocemente da lasciare sbalordita Miliko.

— Lei brava correte — assicurò Svelta. — Fatto Freccia camminare lontano per prenderla. Molto lui caduto, lei cammina.

Miliko aggrottò la fronte, perplessa; gran parte di ciò che dicevano gli hisa era sconcertante. Ma Bisbiglio se n’era andata per una ragione seria, questo sembrava evidente, e Miliko si sforzò di proseguire di buon passo.

Finalmente scorse un varco tra gli alberi, e si avviò barcollando da quella parte con le forze che le restavano, perché vide del fumo, il fumo dei mulini; e poco dopo riuscì a scorgere il baluginio di una cupola nel crepuscolo. Si lasciò cadere in ginocchio al limitare del bosco, e impiegò un attimo per capire dov’era. Non aveva mai visto il campo da quell’angolo, dall’alto delle colline. Restò così, mentre Svelta le batteva una mano sulla spalla, perché ansimava e la vista le si offuscava di continuo. Cercò a tentoni le tre bombole di ricambio che aveva nella tasca sinistra, augurandosi di non aver rovinato quella della maschera. Aveva calcolato che avrebbe potuto vivere là fuori per intere settimane; non era possibile che consumassero le bombole tanto in fretta.

Il sole stava tramontando. Miliko vide le luci accendersi nel campo, e mentre si spingeva verso il ciglio di una sporgenza erbosa, scorse le figure umane muoversi laggiù, sotto le luci, una fila di operai che portavano un carico sulle spalle, facendo continuamente la spola tra il mulino e la strada.

— Lei viene — disse all’improvviso Svelta. Miliko si voltò, e si accorse della scomparsa degli altri, che prima erano dietro di loro, fra gli alberi, e adesso non si vedevano più; batté le palpebre quando i cespugli si aprirono e Bisbiglio si inginocchiò davanti a lei, ansimando.

— Freccia — mormorò Bisbiglio, dondolandosi. — Lui soffre, lui soffre lavoro duro. Konstantin-uomo soffre. Dare, dare te.

Stringeva un pezzetto di carta nel pugno bagnato e peloso. Miliko lo prese, e lo aprì cautamente, mentre la pioggerella lo bagnava di nuovo e lo rendeva fragilissimo. Dovette chinarsi e girarlo per leggerlo nella luce fioca del crepuscolo… parole scarabocchiate in modo quasi illeggibile.

— Qui va molto… male. Non dico di no. Tieniti fuori. Stai lontana. Per favore. Ti ho detto cosa fare. Disperdetevi e state lontani… paura… loro… forse non… forse vogliono altri operai… Io sto bene. Ti prego… torna indietro… non metterti nei guai.

Le due hisa la guardavano, perplesse. Segni sulla carta… erano confuse. — Qualcuno ti ha vista? — chiese Miliko. — Uomini visto te?

Bisbiglio sporse le labbra. — Io indigena — disse sprezzante. — Molti indigeni viene qui. Porta sacco, indigeno. Porta a mulino, indigeno. Freccia là, umano visto io, non visto. Chi io? Io indigena. Freccia dice tuo amico soffre lavoro duro; uomini uccide uomini; dice ama te.

— Anch’io lo amo. — Miliko infilò il prezioso messaggio nella giacca, rannicchiata tra le fronde con il cappuccio calato sulla testa e la mano in tasca, sul calcio della pistola.

Non potevano far qualcosa senza rischiare di peggiorare la situazione… senza mettere in pericolo la vita di tutti. Anche se avessero potuto prendere una delle navette… avrebbero attirato le rappresaglie sugli altri. Un attacco massiccio. Al santuario. Vite in cambio di altre vite. Emilio lavorava laggiù per salvare la Porta dell’Infinito… per salvare quel che potevano. E l’ultima cosa che voleva era un’azione improvvisata da parte loro.

— Svelta — disse Miliko, — corri, trova gli hisa, trova tutti gli umani con me, capito? Devi dire… Miliko parla con Konstantin-uomo: dire a tutti di aspettare, aspettare, non fare guai.

Svelta provò a ripeterlo, si confuse, perché non sapeva tutte le parole. Miliko riprovò, paziente… e alla fine Svelta annuì. — Dico loro seduti — disse Svelta, eccitata. — Tu parli Konstantin-uomo.

— Sì — disse Miliko. — Sì. — E Svelta corse via.

Gli indigeni erano liberi di andare e venire. Gli uomini di Mazian, come aveva detto Bisbiglio, non vedevano nessuna differenza tra loro, non riuscivano a distinguerli. E quella era la sola speranza che avevano: mantenere le comunicazioni, per far sapere agli uomini laggiù che non erano soli. Emilio sapeva che lei era lì. E forse, anche se avrebbe desiderato che lei fosse altrove, la sua presenza lo confortava.

CAPITOLO TERZO

PELL: SETTORE VERDE NOVE; 8/1/53; ore 1800

Correvano voci di ogni genere, nel settore verde, ma non c’erano segni di un blocco, di perquisizioni, di una crisi imminente. I militari erano impegnati nelle normali attività. I bar del molo erano pieni di musica e i soldati in libertà si rilassavano, bevevano, alcuni si ubriacavano. Josh si affacciò guardingo dalla porta del locale di Ngo, e subito rientrò quando una squadra di militari dall’aria più efficiente venne in quella direzione: avevano uniformi corazzate, sguardi truci e intenzioni precise. Quella vista lo innervosì, come lo innervosivano tutti quei movimenti quando non aveva Damon vicino a sé. Aveva sopportato l’attesa nel nascondiglio, perché era il suo turno di aspettare nel magazzino di Ngo, andando nella sala soltanto all’ora dei pasti… ma adesso era ora di cena, e lui cominciava a preoccuparsi. Damon si era ostinato ad uscire il giorno prima e poi anche quel giorno stesso, seguendo certe piste, alla ricerca di un contatto… parlando con la gente e rischiando di mettersi nei guai.