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Josh si svincolò dalla stretta di Gabriel, e batté le palpebre, accecato dalle lacrime. Cominciava ad andare tutto a pezzi, irreparabilmente, la fattoria, la strada assolata, l’infanzia…

— Siamo nati nei laboratori — continuò Gabriel. — Tutti e due. Il resto… gli altri ricordi… ce li hanno instillati con i nastri, e la prossima volta potranno inserire qualcosa d’altro. Cyteen era reale; io sono reale… fino a che non cambieranno i nastri. Fino a che io non diventerò qualcosa d’altro. Hanno manipolato la tua mente, Josh. Hanno sepolto l’unica cosa reale. Tu hai raccontato loro delle menzogne, e si sono adattate alla tua memoria. Ma c’è la verità. Tu conosci i computer. Sei sopravvissuto, qui. E conosci la stazione.

Josh restò immobile, con le labbra premute contro il dorso della mano, e le lacrime gli scorrevano sul viso, ma non piangeva. Era intontito, e le lacrime continuavano a scendere. — Che cosa vuoi che faccia?

— Che cosa puoi fare? Che contatti hai? Non con gli uomini di Mazian, vero?

— No.

— Chi?

Lui restò fermo, per un momento. Le lacrime cessarono: qualcosa s’era improvvisamente inaridito dentro di lui. Tutta la sua memoria sembrava un foglio bianco, la detenzione e un luogo lontano confuso nel suo ricordo, celle bianche e assistenti in uniforme, e finalmente capiva che era stato abbastanza felice, in detenzione, perché era come essere a casa, l’istituzione universale, in bilico sui due fronti della politica e della guerra. Casa. — Potrei fare a modo mio — disse. — Potrei parlare al mio contatto, d’accordo? Potrei trovare aiuto. Ma ti costerà.

— Cosa vuoi dire?

Josh si appoggiò allo schienale, accennò all’esterno, dove attendevano Coledy e Kressich. — Tu hai influenza, no? Supponiamo che io faccia la mia parte. Dopo, che succede? Supponiamo che io possa procurarti quasi tutto su questa stazione… ma che io non abbia la forza di controllare la situazione.

— Io ce l’ho — disse Gabriel.

— Io ho il resto. Ma c’è una cosa che voglio e che non posso ottenere senza la forza. Una navetta. Un passaggio verso la Porta dell’Infinito.

Gabriel tacque per un momento. — Hai un accesso del genere?

— Ti ho detto che ho un amico. E voglio andarmene.

— Tu e io potremmo farcela.

— E anche il mio amico.

— Quello che lavora con te al mercato nero?

— Pensa quello che vuoi. Io ti procuro gli accessi che ti servono. Tu fai i piani per farci uscire da questa stazione.

Gabriel annuì, lentamente.

— Devo tornare — disse Josh. — Comincia a darti da fare. Non c’è molto tempo.

— Adesso le navette attraccano nel settore rosso.

— Posso portarti là. Posso portarti dove vuoi. Ma abbiamo bisogno di una forza sufficiente per prendere la navetta, quando ci arriveremo.

— Mentre gli uomini di Mazian sono occupati?

— Mentre sono occupati. C’è un modo. — Josh fissò Gabriel per un momento. — Hai intenzione di far saltare la stazione. Quando?

Gabriel sembrava indeciso se rispondere o no. — Non ho la vocazione del suicida. Ci tengo alla pelle, e questa volta non c’è speranza che l’Hammer venga a prenderci. Una navetta, una capsula, qualunque cosa che abbia la possibilità di restare in orbita abbastanza a lungo…

— D’accordo — disse Josh. — Sai dove trovarmi.

— C’è una navetta attraccata, in questo momento?

— Controllerò — disse lui, e si alzò, uscendo nel frastuono del locale dove Coledy, l’altro uomo e Kressich si alzarono da un tavolo vicino con aria preoccupata. Ma Gabriel era uscito dietro di lui. Lo lasciarono passare. Lui si avviò fra i tavoli, fra le teste curve sui bicchieri e sui piatti, e le schiene indifferenti.

Fuori, l’aria lo investì come una muraglia di freddo e di luce. Trasse un profondo respiro e cercò di schiarirsi la mente, e intanto sul pavimento si formavano trame d’ombra, lampi di verità e di menzogna.

Cyteen era una menzogna. Lui era una menzogna. Una parte di lui funzionava come un automa, come immaginava di essere… riconosceva gli istinti di cui non si era mai fidato, non sapendo quale fosse la loro origine… Trasse un altro respiro, cercando di riflettere, mentre il suo corpo procedeva lungo il corridoio, in cerca di un rifugio.

Solo quando fu di nuovo davanti alla cena ormai fredda, al tavolo in fondo al locale di Ngo, quando sedette in quel luogo familiare, con le spalle al sicuro e la realtà di Pell che animava quel bar, il torpore cominciò ad abbandonarlo. Pensò a Damon, una vita, una vita che forse poteva salvare.

Lui uccideva. Era stato creato per questo. Era per questo che esistevano gli individui come lui e Gabriel. Joshua e Gabriel. Capiva l’ironia dei loro nomi. Ed ora un nodo gli stringeva la gola. I laboratori. Quello era il nulla in cui era vissuto, il biancore dei suoi sogni. Scrupolosamente isolato dall’umanità. Istruito con i nastri… capacità instillate; menzogne da raccontare… per fingere di essere umano.

Ma nelle menzogne c’era una lacuna… erano state inserite in un corpo umano, con istinti umani, e lui aveva amato quelle menzogne.

E le aveva vissute nei suoi sogni.

Mangiò, e i bocconi gli si fermavano in gola; bevve del caffè freddo, e ne versò ancora dalla caraffa termica.

Poteva portar via Damon. Gli altri dovevano morire. Per far fuggire Damon doveva tacere, e Gabriel doveva convincere gli altri a seguirlo, doveva promettere a tutti la vita, garantire un aiuto che non sarebbe mai arrivato. Sarebbero morti tutti, tranne lui e Gabriel, e Damon. Si chiese come avrebbe potuto persuadere Damon a partire… e se avrebbe potuto farlo. Se doveva fare appello alla ragione… quale ragione?

Alicia Lukas-Konstantin. Pensò a lei, che l’aveva aiutato aiutando Damon. Lei non poteva andarsene. E le guardie che gli avevano offerto denaro, all’ospedale; e l’indigeno che li seguiva e vegliava su di loro; e quelli che erano sopravvissuti all’inferno delle navi e del settore Q; e gli uomini e le donne e i bambini…

Pianse, con il volto tra le mani, mentre gli istinti, dentro di lui, funzionavano con fredda intelligenza: sapeva in che modo distruggere un luogo come Pell, sapeva che era l’unica ragione della sua esistenza.

Al resto non credeva più.

Si asciugò gli occhi, bevve il caffè, e attese.

NAVE CONFEDERATA UNITY: SPAZIO; 8/1/53

I dadi rotolarono. Due. Ayres alzò le spalle, irritato, mentre Dayin Jacoby segnava i punti a Azov si preparava a un altro lancio. Le due guardie sempre presenti nella sala del ponte inferiore assistevano, sedute sulle panche contro la parete, con un’espressione impassibile sulle facce giovani e perfette. Lui e Jacoby, e raramente anche Azov, giocavano per punteggi immaginari, impegnandosi a pagare in crediti autentici quando avrebbero raggiunto insieme un luogo civile; e questo, pensò Ayres, era un elemento affidato alla sorte, come i risultati dei dadi.

Al momento, l’unica nemica era la noia. Azov diventava socievole, sedeva al tavolo, giocava con loro, perché non poteva abbassarsi a farlo con il suo equipaggio. Forse i manichini si divertivano altrove. Ayres non riusciva a immaginarlo. Niente li sfiorava, niente illuminava quegli occhi odiosi. Soltanto Azov… si univa a loro di tanto in tanto quando sedevano nella sala, otto o nove ore al giorno, ad annoiarsi, perché non c’era niente da fare ed era impossibile fare un po’ di moto. Stavano quasi sempre nell’unico locale dove avevano libero accesso, e parlavano… finalmente parlavano.

Jacoby non aveva remore; faceva confidenze sulla sua vita, i suoi affari, le sue idee. Ayres resisteva sempre, quando Jacoby e Azov cercavano di farlo parlare del suo mondo. Era pericoloso. Ma parlava lo stesso… le sue impressioni sulla nave, sulla situazione attuale, su tutto quello che gli sembrava innocuo; teorie astratte di diritto e d’economia, un argomento che anche Jacoby e lo stesso Azov conoscevano… scherzava sulla moneta in cui avrebbero dovuto pagare le puntate; e Azov rideva. Era un sollievo indicibile avere qualcuno con cui parlare, scambiare qualche battuta. Aveva una specie di legame con Jacoby, una sorta di affinità, che non aveva scelto ma che era ineluttabile. Ognuno rappresentava la ragione, per l’altro. Alla fine, Ayres aveva cominciato a provare lo stesso attaccamento anche per Azov: lo trovava simpatico e spiritoso. E questo era pericoloso, e lui lo sapeva.