Jacoby vinse. Azov segnò paziente i punti, e si rivolse ai manichini. — Jules. Una bottiglia, ti dispiace?
Uno dei due si alzò e uscì. — Credevo che avessero numeri al posto dei nomi — disse sottovoce Ayres. Avevano già bevuto una bottiglia. Poi lo ripeté, a voce più alta.
— Ci sono tante cose nella Confederazione che lei non ha visto — disse Azov. — Ma potrebbe capitarle l’occasione.
Ayres rise, e un gelo improvviso lo afferrò allo stomaco. Come? La domanda gli restò in gola. Avevano bevuto troppo, insieme. Azov non aveva mai ammesso le ambizioni del suo paese, i progetti dopo Pell. Cambiò leggermente espressione, e in quel momento lo fece anche Azov… sgomento reciproco, un momento che durò troppo a lungo, quasi si svolgesse al rallentatore, tra i fumi dell’alcool, con Jacoby che faceva da terzo partecipante involontario.
Ayres rise di nuovo, con uno sforzo, e cercò di nascondere il rimorso; si appoggiò allo schienale della sedia e fissò Azov. — Anche loro giocano d’azzardo? — chiese, fingendo di fraintendere.
Azov strinse le labbra, lo guardò inarcando un sopracciglio argenteo, e sorrise come se fosse realmente divertito.
Non tornerò a casa, pensò Ayres, disperato. Non ci sarà nessun preavviso. È questo che intendeva dire.
Era un luogo buio, e c’era un movimento di molti corpi. Damon ascoltò, e trasalì quando sentì qualcuno vicino a lui, e poi di nuovo, quando una mano gli toccò il braccio nell’oscurità della galleria. Inclinò la lampada in quella direzione, rabbrividendo per il freddo.
— Io Denteazzurro — mormorò la voce conosciuta. — Tu vieni vedere lei?
Damon esitò a lungo, guardando le scalette che si estendevano come ragnatele al di là del raggio della sua lampada. — No — disse, tristemente. — No. Sto solo passando di qui. Sono stato alla sezione bianca. Voglio solo passare.
— Lei chiede tu vieni. Chiede. Chiede sempre.
— No — mormorò Damon con voce rauca, pensando che presto non ci sarebbero più state altre occasioni. — No, Denteazzurro. Le voglio bene, e non posso andare. Non sai che ci sarebbe pericolo per lei, se andassi? Gli, uomini-con-fucili entrerebbero. Non posso. Non posso, anche se vorrei farlo.
La mano calda dell’indigeno batté sulla sua, indugiò. — Tu detto cosa buona.
Damon si stupì. Gli indigeni ragionavano; e sebbene lui lo sapesse, lo sorprendeva sentire che seguivano una logica così umana. Prese la mano dell’indigeno e la strinse, grato della presenza di Denteazzurro in un momento in cui non c’era altro conforto. Sedette sui gradini metallici, trasse un respiro attraverso la maschera… cercando conforto dov’era possibile trovarlo… stare per un momento al sicuro dagli occhi ostili, insieme a qualcuno che nonostante tutte le differenze era diventato un amico. L’hisa si accosciò sulla piattaforma davanti a lui, con gli occhi scuri che brillavano nella luce indiretta, gli batté la mano sul ginocchio, affettuosamente.
— Tu mi sorvegli — disse Damon. — Sempre.
Denteazzurro annuì in segno di conferma.
— Gli hisa sono molto gentili — disse Damon. — Molto buoni.
Denteazzurro inclinò la testa e aggrottò la fronte. — Tu lei bimbo. — Per gli hisa le famiglie erano un concetto molto difficile. — Tu bimbo, Licia.
— Sì, lo ero.
— Lei tua madre.
— Sì.
— Milio lei bimbo.
— Sì.
— Io voglio bene lui.
Damon sorrise, dolorosamente. — Tu non conosci le mezze misure, eh, Denteazzurro? Tutto o niente. Sei un buon amico. Che cosa sanno gli hisa? Conoscono altri umani… o solo i Konstantin? Credo che tutti i miei amici siano morti, Denteazzurro. Ho cercato di trovarli. E stanno nascosti o sono morti.
— Fai tristi me occhi. Damon-uomo. Forse hisa trovano, di’ noi loro nome.
— I Dee. O gli Ushant. I Muller.
— Io chiedo. Qualcuno conosce forse. — Denteazzurro si posò l’indice sul naso piatto. — Trovare loro.
— Così?
Denteazzurro allungò una mano, incerta, e gli accarezzò la barba lunga. — Tu faccia come hisa tu odore stesso umano.
Damon sorrise, divertito, nonostante il suo avvilimento. — Vorrei sembrare un hisa. Allora potrei andare e venire liberamente. Per poco non mi hanno preso, questa volta.
— Tu venuto qui spaventato — disse Denteazzurro.
— Senti l’odore della paura?
— Io vedo tu occhi. Molto dolore. Sento sangue, sento correre forte.
Damon girò il gomito verso la luce: c’era una dolorosa scalfittura che si era aperta attraverso la stoffa e aveva sanguinato. — Ho urtato una porta — disse.
Denteazzurro si fece più vicino. — Io faccio smettere male.
Damon ricordò che gli hisa si curavano da soli le ferite, e scrollò la testa. — No. Ma sei capace di ricordare i nomi che ti ho detto?
— Dee. Ushant. Mul-ler.
— Li troverai?
— Provo — disse Denteazzurro. — Porto loro?
— Vieni a prendermi per condurre me da loro. Gli uomini-con-fucili stanno chiudendo le gallerie che sbucano nel settore bianco, lo sai?
— So. Noi indigeni camminiamo in grandi gallerie fuori. Chi guarda noi?
Damon trasse un profondo respiro, si alzò di nuovo sui gradini che davano le vertigini e strinse a sé l’hisa con un braccio mentre riprendeva la lampada con l’altra mano. — Ti voglio bene — mormorò.
— Ti voglio bene — disse Denteazzurro e scappò via nell’oscurità, con un movimento leggero, una vibrazione dei gradini metallici.
Damon avanzò a tentoni, contando le svolte e i livelli. Niente imprudenze. Aveva già corso un bel rischio, tentando di entrare nel settore bianco. Aveva fatto suonare l’allarme. Aveva paura che questo provocasse ricerche nelle gallerie, guai per gli indigeni, per sua madre, per tutti loro. Gli tremavano ancora le ginocchia, sebbene non avesse esitato a sparare quando aveva dovuto farlo; aveva sparato a una guardia senza corazza, e forse l’aveva uccisa. L’intenzione, almeno, era quella.
E questo gli dava la nausea.
Eppure sperava ancora di aver ucciso la guardia, di aver evitato che l’allarme coinvolgesse il suo nome. Sperava che il testimone fosse morto.
Tremava ancora quando raggiunse l’accesso del corridoio davanti al locale di Ngo. Entrò nella stretta camera di compensazione, abbassò la maschera, usò la tessera che adoperava solo per casi di estrema emergenza. La porta si aprì, senza allarmi. Damon percorse in fretta lo stretto corridoio deserto e usò la chiave manuale per aprire l’entrata posteriore.
La moglie di Ngo, che era al banco della cucina, si voltò a fissarlo, poi si precipitò nella sala. Damon lasciò che la porta si richiudesse, aprì quella del magazzino per buttare dentro la maschera del respiratore. Se n’era dimenticato; troppo preso dal panico, l’aveva portata con sé. Ecco com’era ridotto. Andò all’acquaio della cucina e si lavò le mani, la faccia, e cercò di togliersi di dosso l’odore del sangue e la paura e i ricordi.
— Damon.
— Josh. — Girò stancamente gli occhi verso la porta della sala e si asciugò la faccia. — Guai. — Passò davanti a Josh, andò verso il bar e si appoggiò al bancone. — Una bottiglia — disse a Ngo.