Konstantin aveva cinquecento individui che avevano creduto di venire rimandati ai loro alloggi; il preannuncio di altre evacuazioni nelle istruzioni segrete lasciate dalla Mallory, che avrebbero occupato quasi tutte le sezioni arancione e gialla, spostando altri uffici; e sei agenti dell’Anonima convinti di andare a ispezionare l’andamento della guerra, mentre nessun mercantile sarebbe stato disposto a prenderli a bordo. Non aveva bisogno di altri problemi.
La faccia di quel ragazzo l’ossessionava. Tornò a quella pagina, sfogliò di nuovo il verbale degli interrogatori, gli diede una scorsa, e si ricordò del capo della sicurezza che stava ancora lì. — Cosa ne avete fatto?
— Lo teniamo prigioniero. Gli altri uffici non sono d’accordo su quel che dobbiamo fare di lui.
Pell non aveva mai avuto un prigioniero di guerra. Lì la guerra non era mai arrivata. Angelo rifletté, irrequieto, sulla situazione. — L’Ufficio Legale che cosa suggerisce?
— Ha suggerito che chiedessi una decisione a lei.
— Non siamo attrezzati per quel tipo di detenzione.
— No, signore — riconobbe il capo della sicurezza. Il prigioniero era nell’ospedale: quelle strutture dovevano servire al riaddestramento. All’Adattamento… le poche volte che era stato necessario.
— Non possiamo curarlo.
— Quelle celle non sono fatte per lunghi soggiorni, signore. Forse potremo predisporne una più comoda.
— Già così abbiamo tanta gente senza alloggio. Come lo spiegheremo?
— Potremo arrangiarci. Togliere un pannello nella cella: ricavarne almeno una camera più grande.
— Soprassediamo. — Angelo si passò una mano fra i capelli radi. — Esaminerò il caso appena avrò sistemato la situazione d’emergenza. Si arrangi con lui nel modo migliore, con quello che ha a disposizione. Chieda agli uffici competenti di usare un po’ d’immaginazione e di sottopormi le loro proposte.
— Sì, signore. — Il capo della sicurezza uscì. Angelo mise da parte il fascicolo per riprenderlo più tardi. In un momento simile, non avevano proprio bisogno di un prigioniero come quello. Avevano bisogno di mezzi per procurarsi alloggi e viveri per tutte quelle bocche in più e per prepararsi ad affrontare quello che sarebbe venuto poi. Avevano merci che all’improvviso non potevano più essere destinate altrove: potevano venire consumate su Pell e sulla Porta dell’Infinito, alla Base, e nelle miniere. Ma ne occorrevano ancora. Dovevano pensare all’economia, ai mercati che erano crollati, al valore delle monete che adesso diventava molto dubbio, per quel che riguardava i comandanti dei mercantili. Pell, abituata a un’economia su scala interstellare, doveva raggiungere l’autosufficienza; e forse… forse avrebbe dovuto affrontare altri cambiamenti.
A preoccuparlo non era quell’unico prigioniero della Confederazione che avevano in mano, e che era chiaramente identificato. Era il numero di confederati e di simpatizzanti che sarebbe probabilmente aumentato durante la quarantena; individui per i quali qualunque cambiamento sarebbe apparso migliore della realtà attuale. Solo pochi profughi avevano i documenti; e molti di loro non corrispondevano alle fotografie e alle impronte digitali delle loro carte d’identità.
— Abbiamo bisogno di un collegamento con i residenti della zona di quarantena — disse Angelo al consiglio, nella riunione di quel pomeriggio. — Dovremo creare un governo, dall’altra parte della linea di demarcazione, qualcuno indicato da loro stessi con una specie di elezione; e poi dovremo trattare con loro.
I consiglieri accettarono la proposta come avevano accettato tutto il resto. Erano preoccupati al pensiero dei loro elettori, i consiglieri delle sezioni gialla e arancione, di quelle verde e bianca che avevano ricevuto quasi tutto l’afflusso dei residenti della stazione. Il settore rosso, che confinava dall’altra parte con quello giallo, era irrequieto; e gli altri erano irritati. C’era un’ondata di reclami, di proteste e di voci. Angelo ne prendeva nota. Ci furono discussioni. Finalmente arrivarono all’inevitabile conclusione che dovevano alleggerire la pressione sulla stazione stessa.
— Non autorizziamo ulteriori costruzioni, qui — intervenne Ayres, alzandosi. Angelo lo fissò, incoraggiato dal ricordo di Signy Mallory, che aveva scoperto il bluff dell’Anonima.
— Io sì — disse Angelo. — Ho le risorse per farlo, e lo farò.
Ci fu una votazione. Si svolse nell’unico modo logico, con gli osservatori dell’Anonima che sedevano in iroso silenzio, e posero il veto a ciò che veniva approvato, veto che venne però semplicemente ignorato.
Gli uomini dell’Anonima lasciarono presto la riunione. La sicurezza riferì, più tardi, che si stavano dando da fare sui moli e cercavano di noleggiare un mercantile offrendo tariffe esorbitanti, con pagamento in oro.
Nessun mercantile era disposto a partire, se non per i soliti trasporti all’interno del sistema, verso le zone minerarie. Quando Angelo ne fu informato, non si meravigliò. Soffiava un vento freddo, e Pell ne avvertiva l’effetto; e così pure tutti coloro che avevano gli istinti innati delle Stelle Sperdute.
Alla fine, forse, lo sentirono anche gli uomini dell’Anonima, almeno due di loro, perché noleggiarono una nave per farsi portare in patria, a Sol, la stessa che li aveva condotti lì; un piccolo mercantile decrepito, l’unico con una designazione dell’AT che avesse attraccato a Pell in quasi un decennio, carico di oggetti artigianali e di raffinati generi alimentari della Porta dell’Infinito per il viaggio di ritorno, così come aveva portato merci dalla Terra, all’andata, merci che si vendevano bene come curiosità. Gli altri quattro rappresentanti dell’Anonima alzarono le offerte, e salirono a bordo di un mercantile per una corsa non garantita secondo la rotta già stabilita dalla nave, con fermate a Viking e nelle altre stazioni considerate sicure in quei tempi inquieti. Accettarono le condizioni della Mallory dal comandante di un mercantile, e pagarono per quel privilegio.
CAPITOLO SESTO
Era in corso un temporale sulla Porta dell’Infinito, quando la navetta scese; e non era una cosa rara, su un mondo sul quale abbondavano le nubi, e dove per tutto l’inverno il continente settentrionale era avvolto dalla coltre generata dal mare, solo eccezionalmente così fredda da gelare, ma non abbastanza calda perché gli uomini si sentissero a loro agio… e per mesi e mesi si distinguevano a malapena il sole e le stelle. Il deflusso dei passeggeri, al campo di atterraggio, procedeva sotto una pioggia fredda e battente, una fila di persone stanche e rabbiose lasciava la navetta e saliva la collina, per venire sistemata nei vari magazzini, tra mucchi di stuoie e sacchi muffiti di prosh e di fikli. — Muovetevi e ammassate tutto — gridarono i sovraintendenti, quando l’affollamento divenne evidente; il chiasso era infernale: voci che imprecavano, il martellare della pioggia sulle cupole gonfiate, il rumore sordo dei compressori. Gli stanchi abitanti della stazione si decisero finalmente a eseguire gli ordini… erano quasi tutti giovani, in prevalenza operai delle costruzioni, più alcuni tecnici, virtualmente senza bagagli, quasi tutti spaventati da quel primo contatto con la realtà delle condizioni meteorologiche. Erano nati nella stazione, e ansimavano per quel chilo di peso in più dovuto alla gravità della Porta dell’Infinito, rabbrividivano ai tuoni e ai lampi che si succedevano nei cieli tumultuosi. Non avrebbero potuto riposare prima di aver approntato una specie di dormitorio; non c’era tregua per nessuno, indigeni o umani, tutti impegnati a trasportare i viveri oltre la collina e caricarli sulla navetta, e per le squadre che cercavano di rimediare agli inevitabili allagamenti delle cupole…
Jon Lukas assistette a una parte delle operazioni con una smorfia di disappunto, e tornò alla cupola principale che fungeva da centrale operativa. Camminò avanti e indietro, ascoltò la pioggia, attese per quasi un’ora, e alla fine si rimise la tuta e la maschera per tornare alla navetta. — Arrivederci, signore — disse l’operatore delle comunicazioni, alzandosi. Quei pochi che erano rimasti, smisero di lavorare. Jon Lukas strinse loro la mano, ancora accigliato, e finalmente uscì dalla fragile camera di compensazione e salì i gradini di legno che conducevano al sentiero, sferzato dalla pioggia gelida. Cinquantenne, un po’ grasso, non faceva una gran figura nella lucida plastica gialla. Si era sempre risentito di quell’umiliazione: odiava camminare immerso nel fango fino alle caviglie, nel freddo che penetrava attraverso la tuta e l’imbottitura. La protezione antipioggia e i respiratori trasformavano gli umani della base in mostri gialli e indistinti sotto l’acquazzone. Gli indigeni correvano in giro nudi e soddisfatti, con il pelame bruno sugli arti esili e sui corpi magri scurito dalla pioggia e incollato addosso, le facce dagli occhi tondi e dalle bocche perpetuamente atteggiate in espressioni di stupore, e ciangottavano nella loro lingua, un vocio insistente tra la pioggia e il rombo continuo del tuono. Jon seguì il percorso più diretto per raggiungere il luogo dell’atterraggio, non quello che portava all’altro lato del triangolo, passando davanti alle cupole dei magazzini e alle cupole dei dormitori. Lì non c’era traffico. Niente incontri. Niente addii. Guardò i campi sommersi; i cespugli verdegrigi e i filari degli alberi sulle colline intorno alla base si scorgevano appena tra le dense cortine create dall’acquazzone, il fiume era una fascia ampia e straripante sulla riva più lontana, dove tendeva a formarsi una palude, nonostante tutti gli sforzi fatti per drenarla… altre malattie per gli operai indigeni, almeno per quelli senza vaccinazione. La base della Porta dell’Infinito non era un paradiso. Jon non aveva scrupoli a lasciarla, e ad abbandonare il nuovo personale e gli indigeni. Quello che gli bruciava era il modo in cui era stato richiamato.