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— In piedi, e tutti fuori — gridò un militare.

Emilio si mosse. Sentì gemere, intorno a sé. Gli altri uomini si svegliarono, rabbrividendo nella luce violenta che li investiva. Scese dalla branda, fece una smorfia perché gli dolevano i muscoli e cercò di infilare i piedi piagati negli stivali induriti dall’acqua. La paura cominciava a farsi sentire: piccole cose che non andavano… era diverso dalle altre volte che li avevano svegliati di notte. Mise la giacca, e si tastò la gola cercando la maschera del respiratore. La luce lo investì di nuovo in pieno volto suscitando un coro di lamenti. Si avviò verso la porta e uscì con gli altri salendo i gradini di legno che conducevano al sentiero. Altre luci abbaglianti. Alzò le braccia per ripararsi gli occhi.

— Konstantin. Chiami gli indigeni.

Emilio cercò di vedere al di là delle luci, con gli occhi che lacrimavano… al secondo tentativo distinse alcune ombre, altri che erano stati condotti lì dai mulini. Senza dubbio stava scendendo una navetta. Doveva essere così. Non c’era bisogno di allarmarsi.

— Chiami gli indigeni.

— Tutti voi, fuori — gridò qualcuno dall’interno della cupola; le porte si aprirono facendo diminuire la pressione nella cupola, mentre gli altri venivano spinti fuori sotto la minaccia delle armi.

Una mano minuta, infantile, lo sfiorò. Emilio abbassò gli occhi. Era Freccia. Gli indigeni s’erano svegliati. Tutti gli altri hisa s’erano radunati, sconvolti dalle luci e dalle voci concitate che li chiamavano.

— Sono tutti fuori? — chiese un militare a un altro. — Sì, tutti — rispose quello.

Il tono era sospetto, malaugurante. I dettagli divennero stranamente nitidi, come in quell’attimo che sembra dilatarsi all’infinito quando si precipita da una grande altezza; il tempo che si espandeva… la pioggia e i fari, il luccichio dell’acqua sulle corazze… li vide muoversi… alzare i fucili…

— Addosso! — urlò, e si avventò contro la fila. Un proiettile gli colpì una gamba. Urtò la canna, deviandola, e afferrò le braccia corazzate. Scaraventò l’uomo a terra, gli strappò la maschera mentre quello mulinava i pugni e lo colpiva sul capo. Molti fucili spararono; intorno a lui molti caddero. Raccolse una manciata di fango, l’arma della Porta dell’Infinito, la lanciò contro la visiera di un casco, nella presa del respiratore, e cercò di afferrare una gola, mentre le grida e le urla degli indigeni echeggiavano sotto la pioggia.

Uno sparo gli sibilò sopra la testa e l’uomo con cui stava lottando smise di dibattersi. Emilio si buttò nel fango per prendere il fucile, e rotolò via, stringendolo; alzò gli occhi e vide un’arma puntata contro la sua faccia; premette il grilletto, senza prendere la mira, e il militare barcollò, colpito da qualcun altro, urlando di dolore. Sparavano alle spalle, vicino alle cupole. Emilio sparava contro tutte le armature che vedeva, tra le urla degli indigeni.

La luce lo investì: li avevano inquadrati. Emilio rotolò via di nuovo, sparò verso la luce, convulsamente, e la luce si spense.

— Scappa — gli urlò la voce di un hisa. — Tutti scappare. Presto, presto.

Emilio tentò di alzarsi in piedi. Un hisa lo afferrò e lo trascinò per un breve tratto, facendosi poi aiutare da un altro; lo portarono vicino alla cupola, dove s’erano messi al riparo i suoi uomini. Sparavano dalla collina, dal sentiero che portava al campo d’atterraggio, e alla loro nave.

— Fermateli! — urlò ai suoi uomini. — Tagliategli la strada! — Riuscì a correre, zoppicando, per un breve tratto; gli spari sibilavano nelle pozzanghere intorno a lui. Rallentò, mentre altri fra i suoi uomini proseguivano o cercavano di proseguire.

— Tu vieni — gridò un hisa. — Tu vieni me.

Emilio sparò come poteva, senza badare all’hisa che voleva convincerlo a ritirarsi nei boschi. Uno dei suoi uomini cadde, e altri spari cominciarono ad arrivare dal folto degli alberi colpendo i militari, costringendoli a correre, ed Emilio proseguì zoppicando. I militari erano arrivati sulla cresta della collina, e sparirono oltre il dosso. Sicuramente avevano chiesto aiuto, altri rinforzi, l’intervento dei cannoni della nave che li avrebbero colpiti appena loro fossero usciti allo scoperto. Emilio imprecò, usando il fucile come una gruccia. Alcuni dei suoi continuavano ad avanzare. — State giù! — gridò, e si sforzò di continuare, immaginando la nave che decollava, e le migliaia di esseri indifesi che attendevano intorno alle statue. I militari avevano il vantaggio della distanza, ed erano protetti dalle armature, e quando avessero superato quella collina…

Arrivarono sulla cresta. Il fuoco rischiarò le tenebre e quasi tutti i suoi uomini si buttarono prontamente a terra, mettendosi al riparo. Emilio si curvò, e si spinse più avanti che poteva; si stese bocconi per guardare giù dalla collina, verso la linea di fuoco dei cannoni pesanti. Sul pendio, il terreno cominciò a fumare. Vide militari che si raggruppavano accanto al portello illuminato della nave, sotto un ombrello di fuoco che crivellava il pendio. I raggi fumigavano nella pioggia, sollevando nubi di vapore e arroventando il terreno. I militari potevano raggiungere quel rifugio sicuro; la nave si sarebbe alzata e li avrebbe colpiti dall’alto… e loro non potevano fare nulla, nulla.

Un’ombra dilagò verso il campo, dietro le linee dei militari, come un’illusione, una marea nera che affluiva verso il portello. I soldati, che si stagliavano nel chiarore che circondava la nave, la videro e spararono… dovettero chiamare altri rinforzi; cominciarono a voltarsi ed Emilio aprì il fuoco alle loro spalle, incredulo perché all’improvviso sapeva che cos’era, che cosa doveva essere quell’altro esercito. Si alzò in ginocchio, cercò di sparare ai militari al portello, nonostante i raggi dei riflettori che sciabolavano il versante della collina. La fiumana nera continuò ad avanzare, arrivò al portello, e all’improvviso cedette, ritirandosi disperatamente.

Nel vano del portello ci fu una fiammata, che si diffuse, investendo i militari e gli assalitori; poi giunse il rumore dell’esplosione e la vibrazione gli squassò le ossa. Cadde nel fango e restò immobile. Gli spari erano cessati C’era silenzio… niente più guerra, soltanto il picchiettio della pioggia nelle pozzanghere.

Gli indigeni parlottavano e si agitavano intorno a lui. Emilio cercò di rialzarsi, per scendere laggiù, dove molti dei suoi erano caduti per far saltare il portello.

Poi le luci della nave si riaccesero, i motori rombarono, e ricominciò a sparare, spazzando il pendio con il fuoco dei cannoni.

La nave era ancora viva. Emilio imprecò, mentre numerose mani lo afferravano per le braccia e i fianchi, cercando di portarlo via… indigeni ostinatamente decisi ad aiutarlo, che parlottavano in tono supplichevole.

Poi la nave smise di sparare e spense i motori. Restò silenziosa, con le luci che lampeggiavano e il portello sventrato, annerito dal fuoco.

Gli indigeni cercarono di trascinare via Emilio, aiutandolo quando cercò di alzarsi, e sorreggendolo quando la gamba ferita cedette. La mano minuta di un hisa gli accarezzò la guancia. — Tu tutto bene, tu tutto bene — disse una voce. Era Freccia. Superarono la collina, mentre gli hisa raccoglievano i morti e i feriti. All’improvviso vennero verso di loro alcune figure che uscivano dai boschi, umani e indigeni.

— Emilio! — Era la voce di Miliko. Altri stavano correndo verso di lui… Gli uomini e le donne che avevano lasciato… Emilio riuscì a fare qualche passo, di corsa, raggiunse Miliko, e l’abbracciò come un pazzo, con il sapore della disperazione in bocca.

— Ito — disse lei. — Ernst… sono stati loro. L’esplosione ha bloccato il portello.