— La manderesti via?
Angelo aggrottò la fronte. — Sai bene che non è possibile.
— Sì. Lo so. E io non andrò, e credo che non vorrà andare neppure Emilio. Se lo farà, avrà la mia benedizione; ma io non lo farò.
— Allora non sai niente — disse Angelo, laconico. — Ne parleremo più tardi.
— No — disse Damon. — Se noi ce ne andassimo, qui si scatenerebbe il panico. Lo sai. Sai che effetto farebbe, a parte il fatto che non voglio andarmene.
Era vero. Angelo lo sapeva.
— No — disse di nuovo Damon; posò la mano per un momento su quella del padre, poi si alzò e uscì.
Angelo continuò a fissare la parete, i ritratti allineati sullo scaffale, una successione di immagini tridimensionali… Alicia prima dell’incidente; lui e Alicia giovani; una serie di Damon e di Emilio, dall’infanzia all’età adulta, fino al matrimonio e alla speranza di avere nipoti. Guardò tutte le figure raccolte lì, in tutte le diverse età, e pensò che in futuro i giorni felici sarebbero stati molto meno numerosi.
In un certo senso, era in collera con i suoi figli; e in un altro… era fiero di loro. Era stato lui ad allevarli così.
Emilio, scrisse al figlio sulla Porta dell’Infinito, pensando a quella successione di ritratti, tuo fratello ti manda saluti affettuosi. Mandami tutti gli indigeni addestrati di cui puoi fare a meno. Io ti invio mille volontari della stazione; continua la costruzione della base, a qualunque costo. Chiedi aiuto agli indigeni, fai dei baratti per ottenere viveri. Con tutto il mio affetto.
Poi scrisse al servizio di sicurezza: Selezionate i non violenti. Li trasferiremo sulla Porta dell’Infinito come volontari.
E già in quel momento si rendeva conto di quali sarebbero stati i risultati; i peggiori sarebbero rimasti nella stazione, vicino al cuore e al cervello di Pell. Alcuni consigliavano con insistenza di mandare laggiù i teppisti e di tenerli sotto stretto controllo. Ma c’erano i fragili accordi con gli indigeni, un vago senso di rispetto per i tecnici che si erano lasciati convincere a scendere laggiù, nel fango e in condizioni davvero difficili… non era possibile trasformare il pianeta in una colonia penale. Così era la vita. Era la natura di Pell, e lui rifiutava di violarla, di rovinare tutti i sogni per il suo avvenire.
Vi furono momenti terribili, quando pensò di organizzare un incidente perché l’intero settore Q finisse in decompressione. Era un’idea orribile, una soluzione pazzesca, uccidere migliaia di innocenti insieme agli indesiderabili… accogliere i profughi, una nave dopo l’altra, e provocare un incidente dopo l’altro, per mantenere Pell libera da quel peso, per farla restare così com’era. Damon aveva perso il sonno a causa di cinque uomini. E lui aveva incominciato a prendere in considerazione l’orrore totale.
Anche per questa ragione voleva che i suoi figli lasciassero Pell. Qualche volta pensava che sarebbe stato veramente capace di adottare le misure richieste da certuni, e che era solo la debolezza a impedirglielo, e che stava mettendo in pericolo quanto c’era di buono e di sano per salvare una marmaglia corrotta, dalla quale arrivavano ogni giorno segnalazioni di violenze e di omicidi.
Poi pensò a quel che sarebbe accaduto, alla vita di tutti quanti se avessero trasformato Pell in uno stato di polizia, e lo respinse con tutta la forza delle convinzioni che da sempre regolavano l’esistenza della stazione.
— Signore — l’interruppe una voce, con il tono brusco delle trasmissioni provenienti dalla centrale. — Signore, abbiamo traffico in arrivo.
— Passami la comunicazione — disse Angelo, e deglutì con uno sforzo quando le proiezioni schematiche arrivarono sul suo schermo. Nove. — Chi sono?
— L’Atlantic — rispose la voce della centrale. — Signore, hanno otto mercantili nel convoglio. Chiedono di attraccare. Segnalano che a bordo ci sono condizioni pericolose.
— Permesso rifiutato — disse Angelo. — Almeno, fino a quando non avremo raggiunto un’intesa. — Non potevano accogliere tanta gente; non poteva; certo non un’altra infornata come quella della Mallory. Il cuore di Angelo cominciò a martellare dolorosamente. — Mi chiami Kreshov sull’Atlantic. Mi metta in contatto con lui.
L’Atlantic rifiutò il contatto. La nave da guerra poteva fare quel che voleva. E loro non potevano far nulla per impedirlo.
Il convoglio si avvicinava, silenzioso, con il suo minaccioso carico; Angelo diede l’allarme al servizio di sicurezza.
La pioggia continuava ancora a cadere, ma il tuono si stava smorzando. Tam-utsa-pitan osservava il continuo andirivieni degli umani, seduta con le braccia intorno alle ginocchia, e i piedi nudi affondati nella fanghiglia, mentre l’acqua le sgocciolava lentamente sul pelame. Gran parte di quello che facevano gli umani non aveva senso; gran parte di quello che costruivano non aveva uno scopo apparente; forse lo facevano per gli dèi, forse erano pazzi. Ma le tombe… questo gli hisa lo capivano. Gli hisa capivano le lacrime versate dietro quelle maschere. Restò a guardare, dondolandosi leggermente, fino a quando gli ultimi umani se ne andarono, lasciando solo il fango e la pioggia in quel luogo dove seppellivano i loro morti.
Poi si alzò e raggiunse quel luogo di cilindri e di tombe, affondando i piedi nudi nel fango. Avevano coperto di terra Bennett Jacint e gli altri due. La pioggia stava trasformando quel posto in un grande lago, ma lei aveva osservato con attenzione; non sapeva nulla dei segni che gli umani usavano, ma quello le era familiare.
Portava con sé un lungo bastone, che il Vecchio aveva fabbricato. Camminava nuda sotto la pioggia; aveva soltanto le perline e le pelli infilate su uno spago intorno alla spalla. Si fermò accanto alla tomba, afferrò il bastone con entrambe le mani e lo piantò con forza nel fango molle; inclinò l’effigie dello spirito in modo che fosse rivolta il più possibile verso l’alto, e intorno alle sporgenze appese le perline e le pelli, disponendole con cura, nonostante la pioggia che continuava a cadere a dirotto.
Vicino a lei risuonò un passo nelle pozzanghere, il sibilo di un respiro umano. Si voltò e si scostò di scatto, sbalordita e sgomenta perché un uomo l’aveva colta di sorpresa, e fissò la faccia nascosta dal respiratore.
— Che cosa stai facendo? — chiese l’uomo.
Lei si raddrizzò, e si strofinò sulle cosce le mani infangate. Essere così nuda l’imbarazzava, perché quel fatto sconvolgeva gli umani. Non aveva una risposta per un essere umano. L’uomo guardò il bastone-spirito, le offerte funebri… e poi verso di lei. Da ciò che poteva intuire dal suo volto, le sembrava meno incollerito di quanto la sua voce lasciasse presagire.
— Bennett? — chiese l’uomo.
Lei annuì, ancora sconvolta. Gli occhi le si riempirono di lacrime nel sentire quel nome, ma la pioggia le lavò via. Collera… provava anche quella sensazione, al pensiero che fosse morto Bennett e non un altro.
— Io sono Emilio Konstantin — disse l’uomo, e lei subito si raddrizzò, rilassando i muscoli già pronti a reagire al pericolo con la lotta o con la fuga. — Ti ringrazio per Bennett Jacint. Lui ti ringrazierebbe.
— Konstantin-uomo. — Lei cambiò atteggiamento e arrivò a sfiorarlo. Era molto alto, ben oltre la media. — Amare Bennett-uomo, tutti amare Bennett-uomo. Uomo buono. Dire lui amico. Tutti indigeni sono tristi. — Konstantin-uomo le mise una mano sulla spalla, lei si voltò e lo cinse con un braccio, gli appoggiò la testa sul petto, le abbracciò solennemente, nonostante quegli indumenti gialli e bagnati avessero un aspetto ripugnante. — Buono Bennett faceva arrabbiare Lukas. Buono amico per indigeni. Peccato lui andato. Peccato, Konstantin-uomo.