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— Ho saputo — disse lui. — Ho saputo come andavano le cose qui.

— Konstantin-uomo buono amico. — Lei alzò la faccia, a quel contatto, guardò senza paura la strana maschera che gli conferiva un aspetto orribile. — Vuole bene uomini buoni. Indigeni lavorano, lavorano per Konstantin. Danno te regali. Non andare più via.

Diceva sul serio. Avevano imparato a conoscere i Lukas. In tutto il campo si diceva che dovevano lavorare bene per i Konstantin, perché i Konstantin erano sempre stati gli umani migliori, e portavano doni che gli hisa non avrebbero mai potuto ricambiare.

— Qual è il tuo nome? — chiese Emilio, accarezzandole la guancia. — Come dobbiamo chiamarti?

Lei sogghignò all’improvviso, lusingata da quella gentilezza, e si lisciò la morbida pelliccia che era il suo orgoglio, anche se adesso era bagnata. — Umani chiamano me Satin — disse, e rise, perché il suo vero nome era soltanto suo, una proprietà degli hisa, ma Bennett le aveva dato questo, per la sua vanità, questo nome e un pezzo di stoffa rossa, che lei aveva portato fino a ridurlo un cencio, e che conservava ancora tra i doni degli spiriti.

— Vuoi tornare indietro con me? — chiese lui, alludendo al campo degli umani. — Mi piacerebbe parlare con te.

Lei fu quasi sul punto di accettare, perché questo era un segno di favore. Poi, tristemente, pensò al dovere e si ritrasse, incrociò le braccia, desolata per la perdita del suo amato. — Mi siedo — disse.

— Con Bennett.

— Faccio lui spirito guarda cielo — disse lei, mostrando il bastone-spirito e rivelando qualcosa che gli hisa di solito non rivelavano. — Guarda a lui casa.

— Vieni domani — disse lui. — Ho bisogno di parlare agli hisa.

Lei piegò la testa all’indietro e lo guardò sbalordita. Pochi umani li chiamavano con il loro nome. Era strano sentirlo. — Devo portare altri?

— Tutti i capi, se vogliono venire. Abbiamo bisogno di hisa, lassù: buone mani, buon lavoro. Abbiamo bisogno di commerciare con la Porta dell’Infinito, lavoro per altri uomini.

Lei tese la mano verso le colline e la grande pianura, che si estendeva a perdita d’occhio.

— C’è posto.

— Ma devono dirlo i capi.

Lei rise. — Dici cose-spirito. Io-Satin do questo a Konstantin-uomo. Tutto nostro. Io do, tu prendi. Tutto commercio, molte buone cose; tutti felici.

— Vieni domani — disse lui, e si allontanò: una figura alta e strana nella pioggia che cadeva di traverso. Satin-Tam-utsa-pitan si accoccolò sui talloni, mentre la pioggia sferzava la sua schiena incurvata e scorreva sul suo corpo, e guardò la tomba, che la pioggia ricopriva di larghe pozze d’acqua.

Attese. Alla fine arrivarono altri, meno abituati agli uomini. Uno di loro era Delut-hos-me, che non condivideva il suo ottimismo nei loro confronti; ma anche lui si era affezionato a Bennett.

C’erano uomini e uomini. Questo gli hisa l’avevano imparato.

Si appoggiò a Delut-hos-me, Sole-che-splende-tra-le-nubi, nella sera buia della lunga veglia, e quel gesto lo rese felice. Lui aveva incominciato a deporre doni davanti alla sua stuoia, in quella stagione invernale, sperando nella primavera.

— Loro vogliono che gli hisa vadano Lassù — disse lei. — Io voglio vedere Lassù. Lo voglio.

L’aveva sempre voluto, da quando aveva sentito Bennett parlarne. Era il luogo da cui venivano i Konstantin (e i Lukas, ma scacciò quel pensiero). L’immaginava luminoso e pieno di doni e di cose buone, come tutte le navi che scendevano di Lassù, e che portavano loro provviste e buone idee. Bennett aveva parlato loro di un grande mondo di metallo che tendeva le braccia verso il Sole, per bere la sua forza, affollato di navi più grandi di quanto avessero mai immaginato, simili a giganti indaffarati.

Tutte le cose affluivano in quel luogo e ne defluivano; e adesso Bennett se ne era andato, segnando un Tempo nella sua vita sotto il Sole. Era una sorta di pellegrinaggio, il viaggio che desiderava, per segnare quel Tempo: come abbandonarsi alle immagini della pianura, e alle notti all’ombra di quelle immagini.

Avevano dato agli umani le immagini di Lassù, perché vegliassero. Era giusto chiamarlo pellegrinaggio. E il Tempo riguardava Bennett, che aveva compiuto quel viaggio.

— Perché me lo dici? — chiese Delut-hos-me.

— La mia primavera sarà Lassù.

Lui si fece più vicino. Lei poteva sentire il suo calore. La cinse con un braccio. — Io andrò — disse.

Era crudele, ma lei desiderava il suo primo viaggio; e il suo desiderio per lei sarebbe cresciuto, accompagnando la fine del grigio inverno mentre loro cominciavano a pensare alla primavera, ai venti caldi e allo squarciarsi delle nubi. E Bennett, che riposava nella tomba, sarebbe esploso in quella sua strana risata umana, e avrebbe augurato loro di essere felici.

Gli hisa vagabondavano sempre, in primavera, alla ricerca di un luogo per l’accoppiamento.

PELL: SETTORE AZZURRO CINQUE: 28/5/52

Ancora una volta, una cena surgelata. Erano rientrati tutti e due molto tardi, storditi dalle tensioni della giornata… altri profughi, altro caos. Damon mangiò, e alla fine alzò gli occhi rendendosi conto del proprio assurdo mutismo, e scoprì che anche Elene era sprofondata in un silenzio totale… era diventata un’abitudine, tra loro. Damon si sentì turbato a quel pensiero, e posò la sua mano su quella di Elene, abbandonata accanto al piatto. Le loro dita s’intrecciarono. Anche Elene aveva la stessa aria stanca. Lavorava troppo… Era una sorta di rimedio… per non pensare. Non parlava mai dell’Estelle. Non parlava mai molto. Forse, pensò Damon, era così presa dal lavoro che rimaneva ben poco da dire.

— Oggi ho visto Talley — le disse con voce rauca, cercando di colmare il silenzio, di distrarla, anche se era un argomento lugubre. — Sembrava… tranquillo. Non soffriva. Non soffriva affatto.

Elene strinse più forte. — Allora hai fatto bene, dopotutto, no?

— Non lo so. Non credo ci sia modo di saperlo.

— Lo ha chiesto lui.

— Lo ha chiesto lui — ripeté Damon.

— Hai fatto tutto quello che hai potuto. Non puoi fare di più.

— Ti amo.

Lei sorrise. Le sue labbra tremarono fino a quando il sorriso lentamente svanì.

— Elene?

Lei ritrasse la mano. — Credi che ce la faremo a tenere Pell?

— Temi di no?

— Temo che tu non lo creda.

— Che ragionamento è?

— Le cose che non vuoi discutere con me.

— Non parlarmi per indovinelli. Non sono capace di risolverli. Non ci sono mai riuscito.

— Voglio un figlio. Non sto seguendo il trattamento, adesso. Credo che tu lo segua ancora.

Damon si sentì avvampare. Per una frazione di secondo pensò di mentire. — Sì. Non pensavo che fosse il momento di parlarne. Per ora.

Lei strinse le labbra, angosciata.

— Non so che cosa vuoi — disse lui. — Non lo so. Se Elene Quen vuole un bambino, sta bene. Chiedi. È giusto. È tutto giusto. Ma speravo che fosse per una ragione che io potevo conoscere.

— Non capisco di cosa stai parlando.

— Hai riflettuto molto. Ti ho osservata. Ma non l’hai fatto a voce alta. Che cosa vuoi? Che cosa devo fare? Metterti incinta e lasciarti andare? Ti aiuterei, se sapessi come. Che cosa posso dire?

— Non voglio litigare. Non voglio affatto litigare. Ti ho detto quello che voglio.

— Perché?

Lei alzò le spalle. — Non voglio più aspettare. — Aggrottò la fronte. Per la prima volta dopo molti giorni, Damon ebbe la sensazione di riuscire a fissarla nel profondo dei suoi occhi. Di sentire Elene, così com’era. Qualcosa di dolce. — Per te è importante — disse lei. — Lo vedo.