Quella notte non dormì bene, e prima che venisse il mattino del primo giorno, come aveva preannunciato Andilin, furono svegliati per imbarcarsi e spingersi nel territorio della Confederazione. Vennero informati che la destinazione era Cyteen, il centro del potere dei ribelli. Il primo passo era compiuto. Era impossibile tornare indietro.
CAPITOLO UNDICESIMO
Era tornato. Josh Talley guardò verso la finestra della sua camera e incontrò quel volto che vedeva così di frequente… ricordò, nel modo vago in cui ricordava tutti i fatti recenti, di aver già conosciuto quell’uomo, ed egli faceva parte di quello che gli era accaduto. Questa volta vide i suoi occhi e, spinto da una curiosità più viva del solito, si alzò dalla branda, camminando con difficoltà perché era debole… si avvicinò alla finestra e guardò il giovane. Tese la mano verso la finestra, desideroso di accostarsi a coloro che erano tenuti a distanza; viveva immerso in un bianco limbo, dove tutte le cose erano come sospese, dove il senso del tatto era impreciso e tutti i sapori erano blandi, e le parole venivano da lontano. Andava alla deriva in quel biancore, distaccato e isolato.
Esca, gli dicevano i dottori. Esca quando vuole. Qui fuori c’è il mondo. Può venire, quando è pronto.
Era la sicurezza di un grembo materno. E lui si sentiva più forte. Una volta se ne stava sulla branda, senza aver voglia di muoversi, stanco e appesantito. Era molto, molto più forte; provò l’impulso di alzarsi e di osservare quello sconosciuto. Si sentiva di nuovo coraggioso. Per la prima volta comprese che stava migliorando, e questo lo rese ancora più coraggioso.
L’uomo dietro il vetro si mosse, tese la mano, imitò il suo gesto; e i suoi nervi intorpiditi fremettero, aspettando un contatto, aspettando la sensazione smorzata di un’altra mano. L’universo esisteva al di là di una lastra di plastica, l’unica cosa che poteva toccare… l’universo restava isolato. La rivelazione lo ipnotizzava. Fissò gli occhi scuri, la faccia magra e giovane di un uomo vestito di marrone; e si chiese se non fosse l’immagine di se stesso, così com’era al di fuori del grembo materno, con le mani che toccavano e non erano toccate, e che parevano identiche.
Ma lui era vestito di bianco, e quello non era uno specchio, non era la sua faccia. Ricordava vagamente il proprio viso, ma era un bambino ciò che vedeva nella sua memoria, una sua vecchia immagine; non riusciva a recuperare l’uomo. Non era la mano di un bambino, quella che tendeva; e non era la mano di un bambino quella che si protendeva verso di lui, indipendentemente dalla sua volontà. Gli erano accadute molte cose, e lui non riusciva a ricostruirle. Non voleva. Ricordava la paura.
La faccia dietro la finestra gli sorrise, un lieve sorriso gentile. Lui lo ricambiò, tese l’altra mano per toccare quella faccia, isolata dalla fredda plastica.
— Esca — disse una voce, dalla parete. Lui ricordò che poteva farlo. Esitò, ma lo sconosciuto continuava a invitarlo. Vedeva le labbra muoversi in accordo con i suoni che venivano da un altro punto.
Cautamente, si avvicinò alla porta che, come loro dicevano, era sempre aperta quando lo desiderava.
La porta si aprì. All’improvviso, dovette affrontare l’universo, senza protezione. Vide l’uomo che gli stava davanti e che ricambiava il suo sguardo; se l’avesse toccato, avrebbe sentito la plastica fredda; e se l’uomo avesse aggrottato la fronte, lui non avrebbe saputo dove nascondersi.
— Josh Talley — disse l’uomo. — Sono Damon Konstantin. Si ricorda di me?
Konstantin. Era un nome potente. Significava Pell, e potere. Non ricordava che altro significasse: solo che una volta erano stati nemici, e ora non lo erano più. Era tutto cancellato, tutto perdonato. Josh Talley. L’uomo lo conosceva. Si sentiva in dovere di ricordare quel Damon, e non ci riusciva. E questo lo metteva in imbarazzo.
— Come si sente? — chiese Damon.
Questo era complicato. Cercò di riassumerlo, e non ci riuscì; richiedeva un’associazione dei pensieri, e i suoi vagavano in tutte le direzioni.
— Ha bisogno di qualcosa? — chiese Damon.
— Budino — disse lui. — Con la frutta. — Era il suo piatto preferito. Lo mangiava ad ogni pasto, tranne che a colazione: gli davano sempre quello che lui chiedeva.
— E i libri? Le piacerebbe qualche libro?
Questo non glielo avevano mai offerto. — Sì — disse, e si illuminò, rammentando che aveva amato i libri. — Grazie.
— Si ricorda di me? — chiese Damon.
Josh scrollò la testa. — Mi dispiace — disse avvilito. — Probabilmente ci siamo già incontrati; ma, vede, non ricordo chiaramente. Credo che ci siamo incontrati quando già mi trovavo qui.
— È naturale che se ne sia dimenticato. Mi hanno detto che sta migliorando. Sono venuto spesso a informarmi.
— Lo ricordo.
— Davvero? Quando starà bene, voglio che venga a trovarmi nel mio appartamento. Io e mia moglie ne saremmo molto lieti.
Talley rifletté, e l’universo si ampliò, duplicandosi, moltiplicandosi, e lui non fu più sicuro del proprio equilibrio. — Conosco anche sua moglie?
— No. Ma mia moglie sa di lei. Gliene ho parlato. Ha detto che desidera vederla.
— Come si chiama?
— Elene. Elene Quen.
Lo ripeté muovendo le labbra, perché il nome non gli sfuggisse. Era il nome di una famiglia dei mercantili. Non aveva mai pensato alle navi. Adesso ci pensava. Ricordava il buio, e le stelle. Fissò il volto di Damon, per non perdere il contatto con quel punto di realtà in un mutevole mondo bianco. Se avesse sbattuto le palpebre, forse si sarebbe ritrovato solo. Forse si sarebbe svegliato nella sua stanza, nel suo letto, e non avrebbe avuto nulla a cui aggrapparsi. Cercò un appiglio mentale con tutte le sue forze. — Lei verrà ancora — disse, — anche se io dimentico. Per favore, venga e mi faccia ricordare.
— Ricorderà — disse Damon. — Ma verrò, se non verrà lei.
Josh pianse, come gli capitava molto spesso; le lacrime gli scendevano sul viso, in un puro sfogo emotivo, dovuto non al dolore o alla gioia, ma solo ad una profonda sensazione di sollievo. Una purificazione.
— Si sente bene? — chiese Damon.
— Sono stanco — disse lui. Aveva le gambe deboli per la fatica di stare in piedi, e sapeva che doveva tornare a letto prima che lo prendessero le vertigini. — Vuole entrare?
— Devo restare in quest’area — disse Damon. — Ma le manderò i libri.
Lui aveva già dimenticato i libri. Annuì, compiaciuto e imbarazzato.
— Torni dentro — disse Damon, lasciandolo. Josh si voltò e rientrò.
La porta si chiuse. Lui andò a letto, più stordito di quanto avesse immaginato. Doveva camminare di più. Ne aveva abbastanza di stare sdraiato immobile; se avesse camminato, si sarebbe ripreso più in fretta.
Damon. Elene. Damon. Elene.
C’era un luogo, là fuori, che era diventato reale per lui, dove per la prima volta desiderava andare, una meta da raggiungere quando fosse riuscito ad uscire da lì.
Guardò la finestra. Era vuota. In un terribile attimo di smarrimento, pensò di aver immaginato tutto, che fosse solo una parte di quel mondo dei sogni plasmato nel biancore, che egli stesso aveva creato. Ma c’erano i nomi; i dettagli e la sostanza, indipendentemente da lui; era reale, oppure lui stava diventando pazzo.