Sopra di loro, lo schermo delle comunicazioni si accese. La luce attirò il suo sguardo; alzò gli occhi per un istante, mentre veniva dato un altro annuncio ufficiale: il ritorno di una limitata libertà di transito nella sezione verde. Josh chinò la testa e riprese a lavorare.
— Stanno guardando da questa parte — disse la ragazza.
Era vero. Stavano gesticolando nella sua direzione. Josh alzò gli occhi e li riabbassò, perché erano entrate le truppe corazzate. Soldati dell’Anonima. Uomini di Mazian. — Guarda — disse la ragazza. Josh riprese a lavorare. La voce vellutata della centrale continuava a parlare, assicurando che tutto era a posto. Adesso non ci credeva più.
I passi risuonarono nella corsia, dall’altra parte, passi pesanti, di molte persone. Lo raggiunsero e si fermarono dietro di lui. Josh continuò il suo lavoro con un’ultima, febbrile speranza. Damon, pensò, si augurò. Damon!
Una mano gli toccò la spalla, lo costrinse a voltarsi. Josh alzò gli occhi e vide la faccia del supervisore, sfocata, gli agenti del servizio di sicurezza della stazione e un soldato con la corazza e le insegne della Flotta di Mazian.
— Signor Talley — disse uno dei poliziotti, — vuol venire con noi, per favore?
Josh si rese conto che la chiave inglese che stringeva poteva essere un’arma; la posò meticolosamente sul banco, si pulì la mano sulla tuta e si alzò.
— Dove vai? — chiese la ragazza accanto a lui. Josh non aveva mai saputo come si chiamasse. Il volto scialbo era angosciato. — Dove vai?
Lui non rispose: non lo sapeva. Uno dei poliziotti lo prese per un braccio e lo condusse via lungo la corsia, verso la porta. Tutti guardavano sorpresi. — Silenzio — disse il supervisore. Vi fu un brusio. I poliziotti e i soldati lo condussero nel corridoio e si fermarono. La porta si chiuse e un ufficiale, che portava soltanto la corazza, lo mise con la faccia al muro e lo perquisì.
L’ufficiale gli tolse i documenti dalla tasca. Josh si voltò di nuovo, quando glielo permisero, appoggiandosi con le spalle alla parete, e guardò l’ufficiale che esaminava le sue carte. Atlantic, dicevano le loro mostrine. Fu preso dal terrore. I soldati dell’Anonima avevano in mano le sue carte, e quelle carte erano la sola cosa che dimostrava che lui era innocuo, che aveva quell’esperienza alle spalle, e che non era un pericolo per nessuno. Tese la mano per riprenderle, e l’ufficiale non gliele riconsegnò. Uomini di Mazian. L’ombra tornò ad addensarsi. Ritrasse la mano, ricordando precedenti incontri. Il cuore gli batteva forte.
— Ho un lasciapassare — disse, cercando di dominare il tic che lo prendeva quando era sconvolto. — È con le mie carte. Può vedere che lavoro qui. Devo stare qui.
— Soltanto al mattino.
— Ci hanno trattenuti tutti — disse Josh. — Oltre il solito orario. Controlli gli altri. Siamo tutti del turno del mattino.
— Verrà con noi — disse uno dei soldati.
— Chiedetelo a Damon Konstantin. Lui ve lo spiegherà. Lo conosco. Vi dirà che sono in regola.
Questo li fece indugiare. — Ne prenderò nota — disse l’ufficiale.
— Forse è vero — disse uno dei poliziotti della stazione. — Ne ho sentito parlare. Lui è un caso speciale.
— Abbiamo ricevuto ordini. Il computer ce lo ha segnalato; dobbiamo fare accertamenti. O lo mettete sottochiave voi o ci pensiamo noi.
Josh aprì la bocca per esprimere la sua preferenza. — Lo prendiamo noi — disse il poliziotto, prima che lui potesse parlare.
— I miei documenti — disse Josh, balbettando e arrossendo per la vergogna. Certe reazioni erano incontrollabili. Tese la mano per chiedere le carte; e la mano tremava visibilmente. — Signore.
L’ufficiale le piegò e le infilò nella borsa che portava alla cintura. — Non gli servono. Tanto, non deve andare in nessun posto. Portatelo via e chiudetelo da qualche parte. Se qualcuno di noi lo richiede, consegnatelo, chiaro? Potrà tornare nel settore Q, più tardi, ma prima dovrà occuparsene il comando.
— Sta bene — disse pronto il poliziotto. Prese Josh per un braccio, e lo condusse lungo il corridoio. I militari si avviarono dietro di loro e finalmente, a un incrocio, i due gruppi si divisero.
Ma c’erano uomini di Mazian dappertutto. Josh si sentiva nudo, indifeso… provò un profondo senso di sollievo quando i poliziotti si fermarono davanti a un ascensore e lo fecero salire; nel tragitto fino al settore rosso uno, almeno, non c’erano militari.
— Per favore, chiami Damon Konstantin — disse a un poliziotto. — Oppure Elene Quen. O qualcuno dei loro uffici. Conosco i numeri.
Il silenzio durò per quasi tutto il tragitto.
— Riferiremo per via gerarchica — disse finalmente uno di loro, senza guardarlo.
L’ascensore si fermò a rosso uno. Zona di sicurezza. Josh uscì tra i poliziotti, oltre un divisorio trasparente e la scrivania all’ingresso. Anche in quell’ufficio c’erano militari corazzati e armati, e quella vista gli diede un senso di panico, perché aveva sperato che almeno quel settore fosse ancora sotto l’autorità della stazione.
— Per favore — disse, mentre lo stavano registrando. Conosceva il giovane ufficiale che stava alla scrivania; era lì quando lui era prigioniero. Lui ricordava. Si chinò in avanti e abbassò la voce, disperatamente: — Per favore, chiami i Konstantin. Li informi che sono qui.
Anche questa volta non ci fu risposta, solo una deviazione inquieta dello sguardo. Avevano paura, tutti quelli della stazione… avevano terrore delle truppe corazzate. I soldati lo trascinarono via dalla scrivania, lungo il corridoio, verso le celle; lo rinchiusero in una di esse, spoglia e bianca, provvista solo di impianti igienici e di una panca bianca ribaltabile. Lo perquisirono di nuovo, spogliandolo, questa volta, e lasciarono gli indumenti sul pavimento.
Josh si rivesti, e si lasciò cadere sulla panca; sollevò le gambe e appoggiò la testa sulle ginocchia, stanco per il lavoro e con i muscoli contratti per la paura.
Vittorio Lukas lasciò il sedile e si avviò lungo la curva del ponte della Hammer, esitò nel vedere il movimento dell’arma nella mano del confederato che lo teneva d’occhio continuamente. Non gli avrebbero permesso di avvicinarsi ai comandi; nel minuscolo cilindro — quasi tutta la massa sgraziata della Hammer era costituita dal nucleo a gravità zero, a poppa — c’era una linea tracciata con il nastro adesivo che segnava i confini della sua prigione. Non sapeva che cosa gli sarebbe successo se avesse tentato di superarlo, ma non aveva intenzione di scoprirlo. Era autorizzato a fare quasi tutto il giro del cilindro; l’alloggio dell’equipaggio, dove dormiva; la minuscola sezione della sala centrale… e fino a quel punto, nell’area operativa. Da lì poteva scorgere uno degli schermi e il visore al di sopra della spalla del tecnico; indugiò, fissando le schiene degli uomini e delle donne che indossavano le divise del mercantile, ma che non appartenevano alla nave; e aveva ancora lo stomaco sconvolto dalle droghe, i nervi scossi dal balzo. Aveva passato quasi tutta la giornata a vomitare.
Il comandante era in piedi e guardava gli schermi; lo vide e gli fece un cenno, invitandolo ad avvicinarsi. Vittorio esitò; al secondo segnale si avventurò nella zona proibita, voltandosi per lanciare un’occhiata all’uomo armato. Lasciò che il comandante gli posasse amichevolmente una mano sulla spalla, mentre guardava più da vicino lo schermo. L’uomo aveva l’aria prospera… avrebbe potuto essere un uomo d’affari di Pell, e non impartiva ordini in tono secco al suo equipaggio. Lo trattavano abbastanza bene, addirittura con cortesia. Ma la situazione e i suoi potenziali sviluppi lo atterrivano. Vigliacco, avrebbe detto suo padre in tono di disgusto. Era vero. Era un vigliacco. Quello non era il posto adatto a lui, no, non era la compagnia per lui.