Il fetore dilagò nel freddo del molo. I portelli interni si aprirono e una marea umana ne uscì. Individui che si urtavano, si calpestavano l’un l’altro, cadevano, gridavano e urlavano e si precipitavano fuori come pazzi. Barcollarono quando una raffica passò sopra le loro teste.
— Fermi! — gridò Di. — Sedetevi a terra e intrecciate le mani sopra la testa.
Alcuni si erano già seduti per la debolezza; altri si lasciarono cadere, docili, obbedienti. Alcuni sembravano troppo storditi per capire, ma si fermarono ugualmente. L’ondata si era arrestata. Accanto a Signy, Damon Konstantin mormorò un’imprecazione e scrollò la testa. Non disse altro: aveva la faccia sudata. La sua stazione si trovava di fronte al pericolo di un tumulto… collasso di sistemi, la morte dell’Hansford moltiplicata per diecimila. Erano cento, forse centocinquanta superstiti, accovacciati sul molo accanto alla scala che costituiva il cordone ombelicale. Il fetore della nave si diffondeva. Una pompa ansimava, inondando d’aria pressurizzata i sistemi di supporto dell’Hansford. Erano mille, su quella nave.
— Dovremo entrare là dentro — mormorò Signy, nauseata dalla prospettiva. Di stava incanalando gli altri, uno alla volta, facendoli passare sotto il controllo delle armi in una zona chiusa da tende, dove sarebbero stati spogliati, perquisiti, ripuliti, e poi dirottati verso gli uffici o verso le infermerie. Quel gruppo non aveva bagagli e neppure documenti.
— Ho bisogno di una squadra di sicurezza — disse Signy al giovane Konstantin. — E di barelle. Metta a nostra disposizione un’area adeguata. Dovremo eliminare i morti; è tutto quello che possiamo fare. Li faccia identificare come può, impronte digitali, fotografie, il necessario, insomma. Ogni cadavere che esce di qui non identificato significa futuri guai per la vostra sicurezza.
Konstantin aveva l’aria di star male. Dopotutto, era la stessa cosa per alcuni dei suoi soldati. Signy si sforzava di non dare ascolto al proprio stomaco.
Qualche altro superstite era arrivato al varco di accesso: erano debolissimi, quasi incapaci di scendere la rampa. Ma erano pochi, molto pochi.
Stava arrivando la Lila: l’equipaggio aveva incominciato le manovre di avvicinamento in preda al panico, sfidando le istruzioni e le minacce dei ricognitori. Signy sentì la voce di Graff riferire in proposito, e attivò il microfono. — Li tenga lontani. Gli tranci un alettone, se è necessario. Abbiamo già abbastanza da fare. Mi faccia mandare una tuta.
Ne trovarono altri settantotto ancora in vita fra i morti in stato di decomposizione. Il resto era una semplice operazione di pulizia: non rappresentava una minaccia. Signy passò attraverso la camera di decontaminazione, si tolse la tuta, sedette sul ponte deserto e lottò contro la nausea. Un assistente sociale scelse il momento sbagliato per offrirle un tramezzino. Signy lo rifiutò, accettò il caffè prodotto con erbe locali e trattenne il fiato, mentre si concludeva il conteggio dei superstiti dell’Hansford. Adesso, il molo puzzava di spray antisettico. Un tappeto di corpi nei corridoi, sangue, morti. I portelli d’emergenza erano scattati durante un incendio. Alcuni dei morti erano stati tagliati in due. Alcuni superstiti erano stati travolti e calpestati e avevano le ossa fratturate. Urina. Vomito. Sangue. Putredine. Avevano sistemi chiusi, e non erano stati costretti a respirare quell’aria. I superstiti dell’Hansford avevano avuto a disposizione solo l’ossigeno di riserva, e forse questo aveva causato diversi omicidi. Quelli ancora vivi erano stati rinchiusi in aree dove l’aria era meno contaminata che nelle stive mal ventilate dove i profughi si erano ammassati.
— Messaggio del dirigente della stazione — disse il servizio comunicazioni all’orecchio di Signy. — Richiede la presenza del comandante negli uffici della stazione, al più presto.
— No — rispose lei, laconicamente. Stavano portando fuori i morti dell’Hansford; c’era una specie di servizio religioso, stile catena di montaggio, un ultimo rito funebre, prima di scaricarli all’esterno. Catturati dal pozzo di gravità della Porta dell’Infinito, alla fine sarebbero andati alla deriva in quella direzione. Signy si chiese vagamente se i cadaveri bruciassero, precipitando; era probabile, pensò. Lei non aveva mai avuto molto a che fare con i pianeti. Non sapeva neppure se qualcuno si era mai preoccupato di accertarlo.
Quelli della Lila erano in condizioni migliori, e più ordinati. All’inizio avanzarono a spintoni, ma poi rinunciarono quando videro le truppe armate schierate di fronte a loro. Konstantin intervenne, fortunatamente, con l’altoparlante mobile, parlando ai profughi atterriti nel linguaggio della stazione e mettendoli di fronte alla logica dei fatti, al pericolo di danni al suo fragile equilibrio, agli orrori che già si erano sentiti ripetere per tutta la vita. Nel frattempo, Signy si rialzò, stringendo ancora la tazza del caffè, e con lo stomaco un po’ placato vide che le procedure da lei stessa stabilite incominciavano a funzionare regolarmente: quelli con i documenti in un’area, quelli che ne erano privi in un’altra, per le fotografie e il rilascio di un documento d’identità. Il bel giovane dell’Ufficio Legale si dimostrò utile: un intervento autorevole ogni volta che si verificava una contestazione per i documenti o un momento di confusione tra il personale della stazione.
— La Griffin si sta avvicinando per attraccare — disse la voce di Graff. — La stazione ci avverte che rivogliono indietro cinquecento unità di alloggio, dato il numero dei morti dell’Hansford.
— Negativo — disse Signy. — I miei omaggi al dirigente della stazione, ma non se ne parla neppure. Com’è la situazione a bordo della Griffin?
— Sono in preda al panico. Li abbiamo avvertiti.
— Quante altre navi presentano la stessa situazione?
— C’è tensione dappertutto. Non è il caso di fidarsi. Potrebbero perdere la testa, tutti quanti. La Maureen ha un morto, attacco alle coronarie, un altro è in gravi condizioni. La farò attraccare subito dopo la Griffin. Il dirigente della stazione vuol sapere se lei sarà disponibile per un colloquio fra un’ora. So che quelli dell’Anonima stanno facendo pressioni per entrare in quest’area.
— Continui a prendere tempo. — Signy finì il caffè, si avviò lungo le linee davanti al molo della Griffin. Le truppe si stavano trasferendo verso quell’attracco, perché vicino all’Hansford non era rimasto niente da sorvegliare. I profughi tacevano. Erano occupatissimi a rintracciare gli alloggi loro assegnati, e l’ambiente sicuro della stazione cominciava a tranquillizzarli. Una squadra equipaggiata stava aspettando di portar fuori l’Hansford; in quel molo c’erano soltanto quattro attracchi. Signy misurò con gli occhi lo spazio loro assegnato dalla stazione, cinque livelli di due sezioni e i due moli. Non era granché, ma avrebbero potuto farcela, per un po’. I dormitori avrebbero potuto risolvere in parte il problema… temporaneamente. Sarebbero stati un po’ scomodi. Niente lussi, questo era certo.
Non erano i soli profughi dello spazio: erano semplicemente i primi. Ma questo Signy si guardava bene dal dirlo.
Fu la Dinah a causare guai; un uomo sorpreso con le armi al posto di controllo, che reagì malamente all’arresto: due morti, singhiozzi e isteria fra i passeggeri. Signy assistette alla scena, stancamente, scrollò la testa e ordinò di scaricare nel vuoto quei due cadaveri insieme agli altri, mentre Konstantin si avvicinava indignato. — Legge marziale — disse lei, troncando ogni discussione, e si allontanò.