— Chiediamolo a Il-Sole-è-suo-amico — esclamò un altro. — Lei deve saperlo.
— Dov’è Il-Sole-è-suo-amico?
Silenzio. Nessuno lo sapeva. I Vecchi serbavano quel segreto.
— La troverò io. — Era stato Colosso a parlare. Si avvicinò, nel buio, tese la mano e le toccò la spalla. — Io vado in molti posti. Vieni. Vieni.
Satin trasse un profondo respiro e lambì, incerta, la guancia di Denteazzurro.
— Veniamo — accettò all’improvviso Denteazzurro, tirandola per la mano. Colosso si avviò in fretta, precedendoli, con uno scalpiccio nell’oscurità. Allora lo seguirono, e altri si accodarono, su per i corridoi bui e per le scalette e le strettoie, dove qualche volta c’era luce, qualche volta no. Alcuni rimasero indietro, perché procedevano a fatica fra le tubature, in luoghi freddi e in altri che invece bruciavano i loro piedi nudi, passando tra macchine che rombavano, potenti e minacciose.
A volte era Denteazzurro a guidare il gruppo, lasciando la mano di Satin; a volte Colosso lo spingeva di lato e tornava ad avanzare per primo. Satin dubitava che Denteazzurro conoscesse la direzione giusta, e come raggiungere Il-Sole-è-suo-amico; erano stati nel Luogo del Sole, e lei possedeva ancora, vagamente, quel senso d’orientamento che aveva avuto sul pianeta, e che suggeriva al suo cuore quale strada prendere… era in alto; e le sembrava che fosse a sinistra… ma qualche volta le gallerie non svoltavano a sinistra, ed erano tortuose. I due maschi continuavano a procedere in testa, alternandosi; e alla fine tutti ansimavano e continuavano a incespicare. Molti rimasero indietro; e alla fine quello che stava subito dietro a Satin le prese la mano, con un gesto implorante… ma Denteazzurro e Colosso continuavano ad andare avanti, e lei temeva di perderli. Si staccò dall’ultimo di quelli che seguivano e continuò a camminare, cercando di raggiungerli.
— Basta — supplicò quando li ebbe trovati, sulla scala di metallo. — Basta. Torniamo indietro. Vi siete persi.
Colosso non volle ascoltarla; ansimando, continuò a salire; Satin trattenne Denteazzurro per un braccio e lui sibilò, irritato, e seguì Colosso. Una follia. La follia s’era impadronita di loro. — Non mi mostrate niente! — gemette Satin. Scattò, disperata e si affrettò a seguirli, ansimando, cercando di ragionare con quei due che erano usciti di senno. Passarono davanti a pannelli e a porte che forse conducevano all’aperto; li ignorarono tutti. Ma finalmente giunsero in un luogo dove era necessario scegliere: una luce azzurra brillava sopra una porta, da cui le scalette si estendevano dovunque, in alto e in basso e in altre tre direzioni.
— Qui — disse Colosso dopo una breve esitazione, tastando i pulsanti accanto alla porta illuminata. — Si passa da qui.
— No — gemette Satin. — No — ripeté Denteazzurro, che forse stava ritrovando il buon senso; ma Colosso premette il primo pulsante e si insinuò nella camera di compensazione, quando la porta si aprì. — Torna indietro — esclamò Denteazzurro, e si precipitarono entrambi per fermare Colosso che era spinto da uno spirito di rivalità, e che faceva questo per lei, non per altro. Entrarono con lui. La porta si chiuse alle loro spalle. La seconda porta si aprì sotto la spinta di Colosso quando lo raggiunsero. E venne la luce… accecante.
E all’improvviso i fucili spararono, e Colosso stramazzò sulla soglia, con un odore di bruciato. Gridava e urlava orribilmente, e Denteazzurro si voltò di scatto e premette l’altro pulsante, trascinando via Satin mentre la porta si apriva e il vento turbinava intorno a loro. Voci di uomini lanciarono grida d’allarme, che si smorzarono quando la porta si chiuse. Raggiunsero la scaletta e fuggirono; scesero correndo alla cieca, nell’oscurità. Tolsero i respiratori, ma l’aria aveva un odore strano. Finalmente si fermarono, sudati e tremanti. Denteazzurro gemeva di dolore nell’oscurità, e Satin cercò di scoprire se aveva una ferita; si accorse che teneva le dita premute sul braccio. Leccò il punto dolorante, che scottava, abbracciò Denteazzurro e cercò di calmare la rabbia che lo faceva tremare. Erano perduti, entrambi, perduti in quegli oscuri recessi; Colosso era morto in un modo orribile, e Denteazzurro sibilava di dolore e di collera, con i muscoli tesi e frementi. Ma dopo un momento si scosse, le lambì la guancia e tremò quando lei lo cinse con un braccio.
— Oh, andiamo a casa — mormorò Denteazzurro. — Andiamo a casa, Tam-utsa-pitan, e basta vedere umani. Niente più macchine, niente più capi, niente più lavoro per gli umani, soltanto gli hisa, per sempre. Andiamo a casa.
Lei non disse nulla. Il disastro era colpa sua, perché era stata lei a suggerire l’idea; Colosso provava desiderio per lei, e Denteazzurro aveva accettato la sfida, come se fossero tra le alte colline. Il disastro era opera sua. E adesso anche Denteazzurro parlava di abbandonare il suo sogno, non era più disposto a seguirla. I suoi occhi si riempirono di lacrime; dubitava di se stessa, temeva di essersi spinta troppo lontano. Adesso erano in un guaio ancora più grande, perché per trovare una via d’uscita dovevano risalire nei luoghi degli uomini, aprire una porta e chiedere aiuto, e avevano visto quali erano le conseguenze. Si abbracciarono e non osarono più muoversi.
La Mallory aveva l’aria stanca, gli occhi vacui, mentre camminava avanti e indietro lungo le corsie della centrale di comando, interminabilmente, mentre le sue truppe montavano di guardia. Damon la osservava, appoggiato a un quadro di controllo. Anche lui era affamato e stanco, ma si rendeva conto che era una cosa da niente, in confronto a ciò che doveva provare il personale della Flotta, dopo aver compiuto il balzo ed essere passato a noiosi compiti di polizia; gli operai, che non ricevevano il cambio, erano esausti e facevano sentire le loro timide proteste… ma non c’era mai un cambio, per quelle truppe.
— Ha intenzione di restare qui tutta la notte? — le chiese.
Lei gli rivolse un’occhiata gelida, non disse nulla e continuò a camminare.
Damon la stava osservando da due ore: era una presenza malaugurante, nel centro. La Mallory si muoveva senza far rumore e senza prepotenza, ma sembrava sicura che chiunque le avrebbe ceduto il passo. E infatti era così. I tecnici che dovevano alzarsi lo facevano solo quando la Mallory controllava un’altra corsia. Lei non aveva mai pronunciato una minaccia… parlava di rado, quasi sempre ai soldati, e ciò che diceva rimaneva fra di loro. Qualche volta, prima che la stanchezza si facesse sentire, era addirittura gentile. Ma la minaccia c’era, indubbiamente. Quasi tutti gli abitanti della stazione non avevano mai visto da vicino l’armamentario che circondava la Mallory e le sue truppe, non avevano mai toccato un fucile, e quasi non avrebbero saputo descrivere ciò che vedevano. Damon aveva notato tre modelli diversi, solo in quella piccola sezione: pistole leggere, pistole a canna lunga, fucili pesanti, tutti di plastica nera e dalle minacciose simmetrie; corazze capaci di assorbire il fuoco di quelle armi… e che conferivano alle truppe lo stesso aspetto di fredda efficienza del resto dell’equipaggiamento, un aspetto non più umano. Era impossibile rilassarsi, in mezzo a individui simili.
In fondo alla sala un tecnico si alzò e si voltò come per vedere se qualcuna delle armi si era mossa… si avviò lungo la corsia come se fosse un campo minato. Consegnò a Damon un messaggio, senza leggerlo, consapevole della curiosità della Mallory. La donna s’era fermata. Damon non riuscì ad immaginare come avrebbe potuto sottrarsi alla sua attenzione; aprì il foglio e lo lesse.
PSSCIA/PACPAKONSTANT INDAMON/AU1-1-1-1-1-1030/10 4/52/2136MD/0936A / INIZIO / DOCUMENTI TALLEY SEQUESTRATI E TALLEY ARRESTATO PER ORDINE FLOTTA / UFFICIO SIC AVUTO POSSIBILITÀ SCELTA TRA DETENZIONE LOCALE O INTERVENTO MILITARE / TALLEY RINCHIUSO QUI / TALLEY CHIEDE MESSAGGIO INOLTRATO FAMIGLIA KONSTANTIN / ESEGUITO / SI RICHIEDONO ISTRUZIONI / SI RICHIEDONO CHIARIMENTI / SAUNDERSREDONESICCOM / FINEFINEFINE.