— Per il bene della sua stazione, signor Konstantin, le consiglierei di cambiare le procedure di sicurezza. Sono stati i vostri operai a far saltare la serratura. È stato questo che ha tagliato in due l’indigeno, quando è scattata la chiusura di sicurezza; qualcuno aveva aperto la porta interna fuori sequenza. Fin dove si estendono le gallerie? Vanno dappertutto?
— Sono fuggiti — disse prontamente Elene. — Sono andati giù, lontano da qui. Probabilmente sono operai temporanei e non conoscono bene le gallerie. E non usciranno più, con la minaccia dei fucili qui fuori. Staranno nascosti fino a quando moriranno tutti.
— Dia loro l’ordine di uscire — disse Vanars.
— Lei non capisce gli indigeni — disse Damon.
— Li faccia uscire tutti dalle gallerie. E le chiuda.
— Sono le gallerie della manutenzione di Pell, tenente; e i nostri operai indigeni ci vivono, con il loro sistema atmosferico. Non è possibile chiudere le gallerie. Andrò io — disse a Elene. — Forse a me daranno ascolto.
Elene si morse le labbra. — Resterò qui — disse, — fino a che non tornerai.
Damon avrebbe voluto obiettare. Ma non era il momento. Lanciò un’occhiata a Vanars. — Forse mi ci vorrà un po’. Gli indigeni non sono una questione negoziabile, su Pell. Sono spaventati, e possono cacciarsi in posti dove morirebbero causandoci guai molto gravi. Se dovessi trovarmi in difficoltà, si metta in contatto con le autorità della stazione, non faccia entrare le truppe; possiamo sbrogliarcela da soli. Se dovesse sparare un altro fucile, quando saremo loro vicini, potremmo trovarci senza un sistema di manutenzione, signore. Il nostro tutto vitale e il loro fanno parte di un tutto che si trova in un equilibrio delicato.
Vanars non disse nulla. Non reagì. Era impossibile capire se la ragione contasse qualcosa, per lui e per gli altri. Damon strinse forte la mano di Elene, si fece largo tra i militari corazzati, cercò di non calpestare una pozza di sangue mentre apriva il portello.
La porta si aprì, e si chiuse dietro di lui, iniziando automaticamente il ciclo. Damon prese il respiratore per gli umani che era sempre appeso alla destra dell’ingresso, in quelle camere, e lo applicò prima che gli effetti del cambiamento d’atmosfera diventassero fastidiosi. Il suo respiro divenne sibilante, come quello che associava inconsciamente alla presenza degli indigeni, e risuonava pesantemente nella camera metallica. Aprì la porta interna e l’eco gli ritornò da lontano. In quel punto c’era una fioca luce azzurra, ma si fermò per aprire lo sportello e prendere una lampada. Il raggio potente tagliò l’oscurità, rivelando una ragnatela d’acciaio.
— Indigeni! — gridò, e la sua voce echeggiò cavernosa. Sentì il freddo, quando varcò la porta, e lasciò che si richiudesse; si fermò sulla piattaforma dove le scalette partivano in tutte le direzioni. — Indigeni! Sono Damon Konstantin! Mi sentite? Rispondete, se mi sentite!
Gli echi si spensero molto lentamente, in lontananza. — Indigeni?
Un gemito salì dalle tenebre, un lamento che gli fece rizzare i capelli. Collera?
Avanzò, stringendo la lampada con una mano, la ringhiera con l’altra, e si fermò, in ascolto. — Indigeni?
Qualcosa si mosse, nelle profondità buie. Un passo leggero risuonò sul metallo, molto più in basso. — Konstantin? — balbettò una voce aliena. — Konstantin-uomo?
— Sono Damon Konstantin — gridò lui di rimando. — Sali, per favore. Niente fucili. Non c’è pericolo.
Rimase immobile e sentì un lieve tremito della struttura metallica mentre qualcosa avanzava nelle tenebre. Sentì respirare, e i suoi occhi scorsero la luce, in basso, fioca come un’illusione. C’era l’impressione di un corpo peloso, poi un altro baluginio d’occhi che s’avvicinavano, a poco a poco. Restò immobile; era solo, fragile in quel luogo buio. Gli indigeni non erano pericolosi… ma nessuno, prima, li aveva mai attaccati con i fucili.
Ora apparvero più nitidi nella luce della sua lampada; salirono l’ultima rampa. Uno era ferito, e l’altro aveva gli occhi sbarrati per il terrore.
— Konstantin-uomo — disse il secondo, con voce tremante. — Aiuto, aiuto, aiuto.
Tesero le mani verso di lui, supplichevoli. Damon posò la lampada sulla grata e li accolse come se fossero bambini, toccò cautamente il maschio, perché aveva il braccio coperto di sangue e contraeva le labbra in un ringhio di dolore.
— Tutto bene — disse. — Siete al sicuro. Adesso siete al sicuro. Vi farò uscire.
— Paura, Konstantin-uomo. — La femmina accarezzò la spalla del compagno, poi lo guardò con gli occhi sgranati. — Tutti nascondigli andati non trovato strada.
— Non ti capisco.
— Altri, altri, altri noi, fame da morire, morti di paura. Prego aiuta noi.
— Chiamateli.
L’indigena toccò il maschio in un gesto eloquente di preoccupazione. Il maschio le disse qualcosa, ciangottando, la spinse, e lei allungò la mano per toccare Damon.
— Aspetterò — le promise Damon. — Aspetterò qui. Non c’è pericolo.
— Ti voglio bene — disse lei in un soffio e ridiscese precipitosamente gli echeggianti gradini metallici, perdendosi subito nel buio. Dopo un momento, grida e strilli risuonarono in basso, raddoppiando gli echi; voci maschili e femminili, profonde e acute, fino a che l’oscurità parve impazzire. Accanto a Damon qualcuno urlò; il maschio stava gridando qualcosa agli altri.
Arrivarono nel silenzio che seguì: il vibrare dei passi sui gradini metallici, i richiami bruschi che risuonavano con insistenza e gemiti da far accapponare la pelle. La femmina risalì correndo e accarezzò la spalla del compagno, poi toccò la mano di Damon. — Io Satin, io chiamo. Fai lui stare bene, Konstantin-uomo.
— Dovranno passare attraverso la camera pochi alla volta, lo sai. E stare molto attenti alla porta.
— Io conosco porta — disse lei. — Io prudente. Vai, vai, io porto loro.
Satin stava già ridiscendendo, in fretta. Damon cinse il maschio con un braccio per sorreggerlo e lo condusse nella camera di compensazione; gli sollevò la maschera, perché l’indigeno era stordito per il trauma e ringhiava per il dolore, ma non cercava di colpirlo. La porta esterna si aprì sulla luce abbagliante e sugli uomini armati, e l’indigeno sussultò, ringhiò e sibilò, poi si calmò quando Damon lo strinse per rassicurarlo. Elene si fece largo tra i soldati, tendendo le mani per aiutare.
— Dica ai soldati di stare indietro — scattò Damon che, accecato dalla luce, non riusciva a distinguere Vanars. — Che si tolgano di mezzo. E la finiscano di puntare i fucili. — Fece sedere l’indigeno sul pavimento accanto alla parete, mentre Elene ordinava all’assistente medico di avvicinarsi. — Faccia togliere di qui i soldati! — disse di nuovo Damon. — Lasci fare a noi!
Fu dato un ordine. Con grande sollievo di Damon, i militari dell’India cominciarono ad allontanarsi. L’indigeno si lasciò convincere a mostrare il braccio ferito all’assistente medico che gli si era inginocchiato accanto. Damon abbassò la maschera che lo soffocava e strinse la mano di Elene che si chinava al suo fianco. L’aria puzzava di sudore e di paura, la paura provata dall’indigeno: un odore muschiato, pungente.
— Si chiama Denteazzurro — disse l’assistente medico, controllando la piastrina. Prese rapidamente un appunto e cominciò a curare la ferita, con delicatezza. — Ustione ed emorragia. Niente di grave, se si esclude lo shock.
— Bere — implorò Denteazzurro, e tese la mano verso la cassetta di pronto soccorso. L’assistente la prese e gli promise che gli avrebbe dato l’acqua appena avessero finito.
La porta si aprì e arrivarono sei indigeni. Damon si alzò, lesse il panico nei loro occhi. — Io sono Konstantin — si affrettò a dire, perché sapeva che il suo nome era importante per gli indigeni. Andò loro incontro a mani tese, e si lasciò abbracciare da quegli esseri sudati e sconvolti. Anche Elene li accolse allo stesso modo, e dopo un momento ne arrivarono altri, formando un gruppo che riempiva il corridoio, più numeroso dei militari piazzati in fondo. Gli indigeni lanciarono occhiate ansiose in quella direzione, ma rimasero in gruppo. Poi ne vennero altri ancora; e con loro c’era la compagna di Denteazzurro che ciangottò preoccupata fino a quando non riuscì a individuarlo. Vanars si fece largo in mezzo all’orda pelosa.