Non era la migliore delle notizie. Non era neppure la peggiore. Per tutta la vita, Emilio aveva immaginato la guerra come un debito che un giorno sarebbe stato inevitabilmente pagato, dall’una o dall’altra generazione. Pell non poteva mantenere in eterno la sua neutralità. Finché gli agenti dell’Anonima erano rimasti con loro, aveva sperato, senza troppa convinzione, che qualche forza esterna fosse disposta a intervenire. Ma non era così. E invece adesso avevano Mazian, il quale stava perdendo una guerra che la Terra non poteva finanziare, e non era in grado di proteggere una stazione forse disposta a finanziarlo; inoltre, lui non sapeva nulla di Pell e non si curava dei delicati equilibri della Porta dell’Infinito.
Dove sono gli indigeni? avevano chiesto i militari. Hanno paura degli estranei, aveva risposto lui. Non c’era traccia degli hisa. E aveva fatto in modo che fosse così. Infilò la richiesta di Porey nella tasca della giacca e salì sulla collina, lungo il sentiero. Vedeva i militari piazzati qua e là tra le cupole, con i fucili bene in vista; vedeva gli operai nei campi lontani, tutti quanti, mandati al lavoro senza riguardo per i programmi, l’età e le condizioni di salute. C’erano militari al mulino, alla stazione di pompaggio. Facevano domande agli operai sulla produzione. Finora non erano riusciti a smentire la versione ufficiale, secondo la quale la stazione aveva assorbito tutto ciò che avevano prodotto. C’erano tutte quelle navi lassù, e tutti i mercantili in orbita intorno alla stazione. Non era probabile che Mazian cominciasse a portar via le provviste ai mercantili… erano troppo numerosi.
Eppure Mazian — e questo pensiero continuava ad assillarlo — non si era certo sforzato di tener testa alla Confederazione solo per farsi imbrogliare da Emilio Konstantin.
Scese il sentiero, superò il ponte sul fossato, e risalì verso il centro operativo. Vide che la porta era aperta. Miliko uscì e si fermò ad attenderlo, con i capelli agitati dal vento, le braccia incrociate sul petto per proteggersi dal freddo. Miliko aveva chiesto di andare alla nave con lui, preoccupata di vederlo da solo nelle mani di Porey, senza testimoni. Lui l’aveva dissuasa. Adesso cominciò ad andargli incontro, ed Emilio agitò le braccia, per farle sapere che le cose erano andate bene… per quanto era possibile.
La Porta dell’Infinito era ancora nelle loro mani.
CAPITOLO NONO
C’era un militare di guardia all’angolo. Jon Lukas esitò, ma era inevitabile che quel gesto attirasse l’attenzione. Il soldato avvicinò la mano alla pistola. Jon si fece avanti, innervosito, porgendo il documento, e il soldato, tozzo e scuro di carnagione, lo prese e lo guardò aggrottando la fronte. — È un’autorizzazione del consiglio — disse Jon. — Al massimo livello.
— Sì, signore — disse il soldato. Jon riprese il documento, si avviò per il corridoio trasversale, con la sensazione che l’uomo continuasse a fissarlo. — Signore.
Jon si voltò.
— Il signor Konstantin è nel suo ufficio, signore.
— Sono il fratello di sua moglie.
Vi fu un momento di silenzio. — Sì, signore — disse blandamente il soldato e riprese la sua posa imperturbabile. Jon si voltò e prosegui.
Angelo si era sistemato molto bene, pensò amaramente; lì non c’era affollamento. Lui non aveva rinunciato al suo spazio per vivere. Tutta la parte terminale del corridoio trasversale quattro era di Angelo.
E di Alicia.
Si fermò davanti alla porta ed esitò. Lo stomaco gli si contrasse. Ormai era arrivato fin lì, e alle sue spalle c’era un soldato che avrebbe fatto domande, avrebbe rilevato un comportamento insolito. Non poteva tornare indietro. Premette il pulsante. Attese.
— Chi? — domandò una voce esile, facendolo trasalire.
— Chi tu?
— Lukas — rispose lui. — Jon Lukas.
La porta si aprì. Un’indigena magra e grigia lo guardò con occhi circondati da profonde rughe. — Io Lily — disse.
Jon le passò davanti, entrò e guardò nel soggiorno fiocamente illuminato: i mobili costosi, il lusso, la spaziosità. Lily gli ronzava intorno, ansiosa; aveva richiuso la porta. Jon si voltò, attirato dalla luce, e vide una stanza, un pavimento bianco, con l’illusione delle finestre aperte sullo spazio.
— Tu venuto vedere lei? — chiese Lily.
— Dille che sono qui.
— Io dico. — La vecchia indigena s’inchinò e si allontanò curva, fragile. C’era un silenzio di morte. Jon attese nel soggiorno buio, senza sapere che fare, con lo stomaco sempre più contratto.
Dalla stanza giunse un rumore di voci. — Jon — sentì. La voce di Alicia. Almeno era umana. Rabbrividì, in preda a un malessere fisico. Non era mai entrato in quell’appartamento. Mai. Aveva visto Alicia attraverso gli schermi, minuscola, rattrappita, un guscio tenuto in vita dalla macchine. Ma questa volta era venuto. Non sapeva perché l’aveva fatto… o forse si. Per scoprire qual era la verità… per scoprire se poteva affrontare Alicia, se la vita meritava di essere vissuta. Tutti quegli anni… con le foto, le trasmissioni, fredde immagini che potevano suscitare qualche emozione, ma trovarsi nella stessa stanza, guardarla in faccia e parlare con lei…
Lily ritornò, con le mani conserte, e fece un lieve inchino.
— Tu vieni. Tu vieni adesso.
Jon la seguì. Si avvicinò alla stanza piastrellata di bianco, la sterile stanza silenziosa, e sentì un nodo allo stomaco.
All’improvviso girò sui tacchi e si avviò verso l’uscita. — Tu vieni? — lo seguì la voce perplessa dell’indigena. — Tu vieni, signore?
Jon sfiorò l’interruttore e uscì; lasciò che la porta si chiudesse dietro di lui, e respirò a pieni polmoni l’aria più fresca e più libera del corridoio.
Si allontanò da quel luogo, dai Konstantin.
— Signor Lukas — disse il soldato quando lui girò l’angolo, e vide che i suoi occhi erano piuttosto interrogativi dietro la maschera di cortesia.
— Stava dormendo — disse lui. Deglutì, e continuò a camminare, cercando ad ogni passo di scacciare dalla mente quell’appartamento, quella stanza bianca. Ricordava una bambina, una ragazza, un’altra persona. Voleva che rimanesse così.
CAPITOLO DECIMO
Il Consiglio si sciolse presto, dopo aver approvato le misure all’ordine del giorno, mentre Keu dell’India assisteva cupamente ai loro atti e ai loro discorsi, e il suo volto di pietra gettava un’ombra sulla discussione. Era il terzo giorno della crisi: Mazian aveva fatto le sue richieste, e aveva ottenuto quel che voleva.
Kressich raccolse gli appunti, e scese dai banchi più elevati verso il centro della sala, presso le sedie allineate intorno al tavolo; indugiò, mentre gli altri uscivano, e guardò ansiosamente Angelo Konstantin, che stava conferendo con Nguyen e Landgraf e alcuni degli altri rappresentanti. Keu era ancora seduto al tavolo e ascoltava; il suo volto bronzeo sembrava una maschera. Kressich aveva paura di Keu… aveva paura di parlare di fronte a lui.
Tuttavia ruppe gli indugi, avvicinandosi più che poteva a quel gruppo che circondava Konstantin, dove sapeva di essere indesiderato; lui, il rappresentante del settore Q, continuo memento di problemi che nessuno aveva il tempo di risolvere. Attese mentre Konstantin finiva di discutere con gli altri, e lo fissò perché si accorgesse che richiedeva la sua attenzione.