Finalmente Konstantin lo notò, e per un momento abbandonò l’evidente intenzione di andarsene insieme a Keu, perché Keu nel frattempo si era alzato. — Signore — disse Kressich. — Signor Konstantin. — Estrasse dalla cartelletta il foglio che aveva preparato e glielo porse. — Dispongo di mezzi limitati, signor Konstantin. Il computer e la stampa non mi sono accessibili, nel luogo in cui vivo. Lo sa. E là, la situazione… — Si umettò le labbra, nel vedere che Konstantin aggrottava la fronte. — Ieri sera, il mio ufficio è stato praticamente preso d’assalto. La prego, signore. Possiamo assicurare ai miei elettori… che continueranno gli invii alla Porta dell’Infinito?
— Stiamo trattando, signor Kressich. La stazione sta facendo il possibile per ristabilire la normalità delle procedure, ma i programmi vengono riesaminati e così pure le direttive di carattere generale.
— È l’unica speranza. — Kressich evitò lo sguardo di Keu, e tenne gli occhi fissi su Konstantin. — Altrimenti… non avremo più nulla in cui sperare. I nostri sono pronti ad andare sulla Porta dell’Infinito. Nella Flotta. Dovunque vengano accolti. Ma è necessario che le domande siano accettate. Devono convincersi che c’è una possibilità di uscire dalla quarantena. La prego, signore.
— E questo che cos’è? — chiese Konstantin, mostrando il foglio.
— Una proposta che non ho potuto riprodurre in modo da sottoporla al consiglio. Speravo che il suo ufficio potesse…
— Riguarda le domande.
— Sì, signore.
— Il programma — interruppe freddamente Keu, — è ancora in discussione.
— Vedremo di fare qualcosa — disse Konstantin, riponendo il foglio tra le altre carte. — Non posso presentare la sua proposta, signor Kressich. Se ne renderà conto anche lei. Prima è necessario risolvere ad altri livelli le questioni fondamentali. Dovrò attendere, e la prego di non sollevare il problema domani, anche se naturalmente lei può farlo. Una discussione pubblica rischierebbe di sconvolgere i negoziati. Lei è un esperto, e mi capisce. Ma per cortesia, se è possibile parlarne in qualche futura riunione… Naturalmente, darò disposizioni perché il mio personale prepari alcune copie della proposta, e altre eventuali, per distribuirle. Deve capire la mia posizione, signore.
— Sì, signore — disse Kressich, con una stretta al cuore. — La ringrazio.
Si voltò per andarsene. Aveva sperato, timidamente. E aveva anche sperato di avere la possibilità di chiedere alla stazione aiuto e protezione. Non voleva il genere di protezione che intendeva Keu. Non osava chiederla. Avevano visto cosa significava la generosità della Flotta, nelle persone della Mallory e di Sung e di Kreshov. Sarebbero intevenuti i militari, e per prima cosa avrebbero smantellato l’organizzazione di Coledy, che era la sua sicurezza, l’unica difesa che lui aveva.
Passò nel vestibolo, sotto gli occhi ironici e stupiti delle statue indigene, varcò la porta di vetro e giunse nel corridoio. Le guardie non gli chiesero nulla. Si avviò verso l’ascensore che l’avrebbe portato al livello azzurro nove, per ritornare a casa, nel settore Q.
Ormai la circolazione era quasi normale nei corridoi della stazione; era meno fitta del solito, ma gli abitanti andavano al lavoro e si muovevano liberamente, anche se con cautela; e nessuno indugiava mai all’esterno.
Qualcuno lo urtò, passandogli accanto. Una mano cercò la sua, gli passò una tessera. Kressich si fermò, ebbe l’impressione confusa di un uomo, di una faccia che non aveva visto bene. Atterrito, resistette all’impulso di guardarsi intorno. Finse di riordinare i fogli della sua cartella, proseguì e, quando fu più avanti nel corridoio, esaminò la tessera. Era una carta d’accesso, con una striscia ben visibile: verde nove 0434. Un indirizzo. Continuò a camminare, lasciando ricadere lungo il fianco la mano che stringeva la tessera, mentre il cuore gli martellava contro le costole.
Poteva far finta di nulla e tornare nel settore Q. Poteva consegnare la tessera, dichiarare di averla trovata per caso, oppure dire la verità: qualcuno voleva entrare in contatto con lui all’insaputa degli altri. Politica. Doveva essere una faccenda politica. Qualcuno, disposto a correre un rischio, voleva qualcosa dal rappresentante di Q. Una trappola… o una speranza, uno scambio di reciproca influenza. Qualcuno che forse poteva eliminare gli ostacoli.
Lui poteva arrivare a verde nove: bastava fingere di sbagliare nel premere il pulsante dell’ascensore. Si fermò davanti alla pulsantiera. Era solo. Premette il verde e rimase fermo in modo da nascondere la spia luminosa agli occhi di eventuali passanti. L’ascensore arrivò, le porte si aprirono. Kressich entrò e una donna s’infilò di corsa all’ultimo momento, e premette la pulsantiera interna, verde due. Le porte si chiusero. Kressich guardò furtivamente la donna mentre la cabina cominciava a muoversi, poi subito abbassò gli occhi. L’ascensore iniziò la discesa. La donna uscì al due; Kressich rimase, mentre salivano altri passeggeri, tutti sconosciuti. Si fermarono al sei, al sette, e ne salirono altri ancora. All’otto, scesero in due. Il nove: Kressich uscì insieme ad altri quattro, si avviò verso i moli, stringendo la carta con le dita sudate. Incrociò diversi militari, che sorvegliavano il movimento nei corridoi. Nessuno avrebbe notato un uomo dall’aspetto comune che camminava lungo un corridoio, si fermava davanti a una porta, usava una tessera per entrare. Era un comportamento normalissimo. Orinai era vicino al corridoio trasversale quattro. Non c’erano guardie. Kressich rallentò, con la mente angosciata, mentre il cuore gli batteva forte; era quasi deciso a passare oltre.
Qualcuno, dietro di lui, gli afferrò la manica e lo trascinò avanti bruscamente. — Venga — disse l’uomo, e svoltò l’angolo con lui. Kressich non oppose resistenza; aveva paura di una coltellata, un istinto che era nato nel settore Q. Naturalmente, anche l’uomo che gli aveva consegnato la carta era sceso… o forse aveva un complice. Si mosse come una marionetta, fino alla porta. Poi l’uomo lo lasciò andare e passò oltre, e lui usò la tessera.
Entrò. Era una stanzetta con il letto sfatto, e abiti sparsi dovunque. Un uomo uscì dal cucinino: era un individuo anonimo, fra i trenta e i quarant’anni. — Lei chi è? — chiese.
Kressich era frastornato. Fece per infilare la carta in tasca, ma quando l’uomo tese la mano, gliela consegnò.
— Nome? — disse l’uomo.
— Kressich. — Poi, disperatamente: — Devo tornare… si accorgeranno della mia assenza da un momento all’altro.
— Non la tratterrò a lungo. Lei viene dalla Stella di Russell, signor Kressich, no?
— Credevo che non mi conoscesse.
— Una moglie, Jen Justin; un figlio, Romy.
Kressich vide lì accanto una poltrona ingombra di vari oggetti e cercò un sostegno, provando una stretta dolorosa al cuore. — Cosa sta dicendo?
— È esatto, Vassily?
Lui annuì.
— La fiducia che i suoi concittadini del settore Q hanno riposto in lei… perché rappresenti i loro interessi. Naturalmente, rispettano le sue iniziative… nel loro interesse.
— Si spieghi.
— I suoi elettori sono in una brutta situazione… un caos burocratico. E quando i criteri della sicurezza militare diventeranno più rigorosi, e lo diventeranno, ora che comandano le forze di Mazian… mi domando, signor Kressich, quali misure verranno prese. Tutti voi avete avversato la Confederazione, naturalmente in un modo o nell’altro; alcuni per sincera antipatia; alcuni per interesse personale; altri per convenienza. Lei a quale categoria appartiene?
— Dove ha saputo tutte queste cose?
— Fonti ufficiali. So molte cose su di lei, cose che non ha mai detto a questo computer, ho fatto varie ricerche. Per dirla in breve, ho visto sua moglie e suo figlio, signor Kressich. Le interessa?
Kressich annuì. Non poté fare altro. Si appoggiò alla sedia, sforzandosi di respirare.