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Sita, Pearl, Little Bear, Winifred. Arrivarono con tormentosa lentezza, scaricarono profughi e suppellettili, e le procedure continuarono.

Signy lasciò il molo, tornò a bordo della Norway e fece un bagno. Si insaponò per tre volte, prima di convincersi di essersi liberata di quel tanfo.

La Stazione era entrata nell’altergiorno; i reclami e le richieste si erano acquietati, almeno per qualche ora.

O almeno, se c’erano, il comando d’altergiorno della Norway non li faceva giungere fino a lei.

Signy aveva una consolazione per la notte, una specie di compagnia, di sfogo. Lui era stato recuperato dal disastro di Russell e Mariner… ma non per venire trasportato sulle altre navi. Là l’avrebbero fatto a pezzi. Lui lo sapeva, ed era riconoscente. Neppure lui aveva simpatia per l’equipaggio e si rendeva conto della situazione.

— Tu scendi qui — gli disse, fissandolo, mentre giaceva disteso accanto a lei. Il nome non aveva importanza. Nella memoria di Signy si confondeva con altri, e qualche volta lo chiamava con un nome sbagliato, quando era tardi e lei era semiaddormentata. Lui non mostrò la minima emozione a quelle parole, si limitò a battere le palpebre, per far capire che aveva assimilato l’annuncio. Quel volto la sconcertava: innocenza, forse. I contrasti l’affascinavano. E anche la bellezza. — Sei fortunato — gli disse. Lui reagì allo stesso modo di sempre. Si limitò a fissarla, vacuo e bello; su Russell avevano giocato con la sua mente. Qualche volta, in Signy c’era qualcosa di sordido, il bisogno di ferire… un omicidio limitato, per cancellare quelli totali. Infliggere piccoli terrori, per dimenticare l’orrore esterno. Qualche volta passava le notti con Graff, con Di, con chiunque colpisse la sua fantasia. Non mostrava mai questo aspetto a coloro che stimava, agli amici, all’equipaggio. Solo, qualche volta c’erano viaggi come quello, quando era di pessimo umore. Era una malattia comune, nella Flotta, nei mondi chiusi delle navi, tra coloro che avevano il potere assoluto. — T’importa? — chiedeva lei; a lui non importava e quella, forse, era la sua salvezza.

La Norway, con le truppe apparentemente in servizio sul molo, era l’ultima nave attraccata in quarantena. Sul molo, le luci erano ancora a mezzogiorno, e splendevano sopra le file di profughi che si muovevano molto lentamente, in presenza delle armi.

CAPITOLO TERZO

PELL:2a/5/52

Troppo, era decisamente troppo. Damon Konstantin accettò una tazza di caffè da un assistente che passava di lì e si rilassò per un attimo, scrutò i moli e si soffregò gli occhi, cercando di scacciarne l’indolenzimento. Il caffè sapeva di disinfettante, come tutto lì attorno: penetrava nei pori, nelle narici, dovunque. Le truppe tenevano gli occhi aperti, proteggendo quella piccola area del molo. Qualcuno era stato accoltellato nel Dormitorio A. Nessuno sapeva spiegare la presenza dell’arma. Pensavano che provenisse dalla cucina di uno dei ristoranti abbandonati dei moli, una posata lasciata lì per dimenticanza da qualcuno che non si rendeva conto della situazione. Damon era esausto. Non riusciva a ottenere una spiegazione; la polizia della stazione non trovava il colpevole tra le file di profughi che continuavano a snodarsi sui moli verso i banchi di assegnazione degli alloggi.

Qualcuno gli sfiorò la spalla. Girò il collo indolenzito e batté le palpebre nel vedere suo fratello. Emilio sedette nel posto libero accanto a lui, tenendogli la mano sulla spalla. Suo fratello maggiore. Emilio aveva il comando della centrale, per l’altergiorno. Ormai era altergiorno, pensò confusamente Damon. I mondi di sonno-veglia in cui loro due s’incontravano di rado s’erano sovrapposti, in tutta quella confusione.

— Vai a casa — disse gentilmente Emilio. — È il mio turno, se uno di noi deve restare qui. Ho promesso a Elene che ti avrei mandato a casa. Sembrava sconvolta.

— Va bene — disse Damon, ma non riuscì a muoversi. Gli mancava la volontà o l’energia. La mano di Emilio gli strinse la spalla, si ritrasse.

— Ho visto i monitor — disse Emilio. — So con che cosa abbiamo a che fare.

Damon strinse le labbra per dominare un’ondata improvvisa di nausea, e guardò diritto davanti a sé: non i profughi, ma l’infinito, il futuro, la disgregazione di tutto ciò che era sempre stato stabile e certo. Pell. La loro Pell. Sua e di Elene, sua e di Emilio. La Flotta si prendeva la libertà di far loro una cosa simile, e loro non potevano impedirlo, perché i profughi erano arrivati troppo all’improvviso, e non avevano pronta nessuna alternativa. — Ho visto sparare alla gente — disse. — Non ho fatto nulla. Non ho potuto. Non potevo oppormi ai militari. Il dissenso… avrebbe causato disordini. Saremmo stati sopraffatti. Ma hanno sparato a gente che non rispettava la fila.

— Damon, vattene. Adesso tocca a me. Qualcosa faremo.

— Non sappiamo a chi rivolgerci. Solo gli agenti dell’Anonima; ed è inutile coinvolgerli. Non chiamarli in causa.

— Ci arrangeremo — disse Emilio. — Ci sono certi limiti; persino la Flotta se ne rende conto. Non possono sopravvivere, se causano grossi rischi a Pell. Qualunque cosa facciano, non possono farci correre rìschi.

— Lo hanno già fatto — disse Damon. Fissò le code sui moli, poi si voltò a lanciare un’occhiata al fratello: un viso che era l’immagine del suo, con cinque anni in più. — Siamo alle prese con qualcosa che credo non riusciremo mai a digerire.

— E quando chiusero le Stelle delle Retrovie? Ce l’abbiamo fatta.

— Due stazioni… seimila persone che arrivano qui, su… su quante? Cinquanta, sessantamila?

— Nelle mani della Confederazione, immagino — mormorò Emilio. — Oppure sono morti con Mariner: non sappiamo quanti siano stati i morti. Forse altri sono fuggiti con altri mercantili e sono andati altrove. — Si appoggiò alla spalliera della sedia, cupo in volto. — Papà dorme, probabilmente. Anche mamma, spero. Mi sono fermato nell’appartamento, prima di venire qui. Papà ha detto che sei stato un pazzo a venire qui, e ho risposto che allora sono pazzo anch’io, e che comunque avrei potuto sistemare quello che non eri riuscito a sistemare tu. Non ha risposto. Ma è preoccupato… Torna da Elene. Lei ha lavorato dall’altra parte di questo caos, a distribuire documenti a quelli dei mercantili. E ha fatto molte domande. Damon, credo proprio che dovresti andare a casa.

— L’Estelle. — L’apprensione lo trafisse. — Elene sta cercando notizie.

— È andata a casa. Era stanca o sconvolta; non lo so. Ha detto che voleva che andassi a casa anche tu, al più presto possibile.

— Ha saputo qualcosa. — Damon si alzò con uno sforzo e raccolse i documenti, si accorse di quel che stava facendo, li passò a Emilio e uscì in fretta, passando oltre il posto di blocco, nel caos del molo, dall’altra parte del corridoio che divideva la stazione dalla quarantena. Gli operai indigeni si disperdevano davanti a lui: erano figure villose e furtive, rese ancora più aliene dalle maschere dei respiratori che portavano fuori dal tunnel della manutenzione; stavano trasferendo a ritmo convulso merci ed equipaggiamenti e suppellettili, e strillavano e gridavano tra loro, in un contrappunto demenziale agli ordini dei sovrintendenti umani.

Damon prese l’ascensore per il settore verde, percorse il corridoio che portava alla loro area residenziale, dove pure erano disseminate casse di effetti personali dei residenti sloggiati, mentre una guardia della sicurezza sonnecchiava pigramente. Erano un po’ tutti impegnati in lavoro straordinario, in particolare i servizi di sicurezza. Damon passò davanti all’uomo, girò la testa quando quello, imbarazzato, gli chiese in ritardo la parola d’ordine, e raggiunse la porta dell’appartamento.