Kressich, seduto alla scrivania, rimase paralizzato. Fu Coledy, tra quelli che sedevano intorno a lui, aggobbiti nell’attesa, a tendere la mano per premere il pulsante. — La sento — disse Kressich, nonostante il nodo alla gola. Guardò Coledy. Aveva negli orecchi il ronzio delle voci sui moli, della gente spaventata, che già minacciava una rivolta.
— Tenetelo al sicuro — disse Coledy a James, il capo degli altri cinque che attendevano fuori. — Tenetelo al sicuro.
E Coledy se ne andò. Avevano atteso vicino al comunicatore, uno di loro sempre pronto a rispondere, rimanendo uniti in tutta quella confusione. E adesso era arrivato il segnale. Dopo un momento, il chiasso della folla all’esterno aumentò, un suono sordo e bestiale che faceva tremare le pareti.
Kressich nascose la faccia tra le mani, e restò così a lungo. Non voleva sapere.
— Le porte — udì finalmente un grido dall’esterno. — Le porte sono aperte!
Corsero, ansimanti, inciampando più volte, urtandosi nel corridoio, un mare di individui in preda al panico che le luci dell’allarme coloravano di rosso. Una sirena continuava a suonare; la gravità era precaria mentre i sistemi della stazione si sforzavano di mantenere la stabilità. — I moli — mormorò Damon, mentre la vista gli si offuscava. Qualcuno, correndo, lo urtò, e lui lo respinse, facendosi largo a spintoni, seguito da Josh, verso il punto dove la rampa si apriva sul settore nove. — Mazian è partito. — Era la sola cosa che avesse un senso.
Incominciarono le urla, e tra la folla ci fu un movimento ondeggiante che la bloccò. All’improvviso, la gente cominciò a muoversi nella direzione opposta, ritirandosi di fronte a qualcosa. C’erano urla frenetiche, una massa di persone che premeva disperatamente.
— Damon! — gridò Josh, più indietro. Era inutile. Furono costretti a indietreggiare, e spinti contro la massa di coloro che premevano alle loro spalle. Qualche sparo risuonò sopra le loro teste e l’intera marea di gente bloccata fu scossa da tremiti e urla. Damon puntò le braccia in avanti, per far leva, per non venir soffocato… aveva le costole schiacciate.
Poi una parte della folla cambiò direzione e scese correndo, in preda al panico, cercando una via di scampo; e la calca divenne un’ondata. Damon cercò di resistere, di mantenere una sua direzione. Una mano gli afferrò il braccio, e Josh lo raggiunse, vacillò mentre la folla spingeva. Cercarono di lottare contro la corrente.
Altri spari. Un uomo cadde; più d’uno… colpiti. Stavano sparando tra la folla.
— Basta! — urlò Damon; c’era ancora una muraglia di gente davanti a lui, una muraglia che diminuiva come se fosse colpita da una falce. — Cessate il fuoco!
Qualcuno l’afferrò da tergo, lo tirò indietro, mentre gli spari continuavano. Un proiettile lo scalfì e Damon sussultò per il dolore, cercando di non perdere l’equilibrio. Ormai correva… C’era Josh, con lui, e se lo trascinava dietro nella ritirata. La schiena di un uomo esplose a poca distanza da loro ed egli cadde, subito travolto dagli altri.
— Di qua! — gridò Josh. Lo strattonò verso sinistra, lungo un corridoio laterale dove si stava riversando una parte della folla. Damon lo seguì; quella direzione ne valeva un’altra… vide una possibilità di tornare indietro, raddoppiò gli sforzi per arrivare ai moli, correndo attraverso il labirinto dei corridoi secondari per ritornare al nove.
Riuscirono a superare tre intersezioni, mentre la gente impazzita si sparpagliava dovunque, a ogni incrocio dei corridoi, barcollando per le alterazioni della gravità. E poi scoppiarono le urla nei corridoi più avanti.
— Attento! — urlò Josh, afferrandolo. Damon ansimò, volgendo lo sguardo e corse lungo la parete interna ricurva, che saliva verso quella che stava diventando una muraglia invalicabile, il divisorio tra i settori.
Non era invalicabile. C’era un varco. Josh gridò e cercò di trascinarlo indietro, quando vide quel vicolo cieco. — Vieni! — gridò Damon e afferrò Josh per la manica, continuò a correre mentre la parete scendeva all’orizzonte, e si portava a livello della muraglia sulla quale c’erano un affresco e, sulla destra, la pesante porta di una galleria usata dagli indigeni.
Si appoggiò alla parete, estrasse convulsamente la sua tessera e l’infilò nella fenditura. La porta si aprì, con un soffio d’aria fetida, e Damon trascinò Josh all’interno, nel freddo e nell’oscurità.
La porta si chiuse. Il ricambio dell’aria venne lentamente attivato e Josh si guardò intorno atterrito; Damon prese due maschere dal ripostiglio, ne passò una a Josh, indossò l’altra e cominciò a respirare. Tremava tanto che non riusciva a regolare la cinghietta.
— Dove stiamo andando? — chiese Josh, con la voce alterata dalla maschera. — Che cosa dobbiamo fare?
Nel ripostiglio c’era una lampada, Damon la prese e l’accese. Fece scattare l’interruttore della porta interna, un suono che echeggiò verso l’alto. Il raggio obliquo rivelò le passerelle. Si trovavano su una grata, e una scala a pioli scendeva ancora più in basso, all’interno di un tubo cilindrico. La gravità diminuì di colpo. Damon si afferrò alla ringhiera.
Elene… Elene si sarebbe trovata nel posto peggiore; avrebbe dovuto bloccare le porte dell’ufficio… era inevitabile. Lui non aveva potuto arrivare fin là; doveva cercare aiuto, trovare un punto dove potesse far muovere le forze della sicurezza in un fronte capace di arrestare quel disastro. Doveva salire. Salire ai livelli più alti; c’era il settore bianco, al di là del divisorio. Cercò di trovare l’accesso, ma il raggio della lampada non gli mostrò nulla di utile. Non c’erano collegamenti diretti, da una sezione all’altra, se non attraverso i moli, al livello numero uno. Lo ricordava… un complicato sistema di camere di compensazione… gli indigeni sapevano dov’erano… lui no. Doveva arrivare alla centrale, pensò; doveva arrivare a uno dei corridoi superiori e mettersi in comunicazione. Non funzionava più niente, la gravità non era più sotto controllo… la Flotta era partita… e forse anche i mercantili, alterando la loro stabilità, e la centrale non compensava lo squilibrio. C’era qualcosa che assolutamente non andava, lassù.
Si voltò, e barcollò quando la gravità crebbe, provando un senso di nausea; si aggrappò a un corrimano e cominciò a salire.
Josh lo seguì.
La centrale non rispondeva; il comunicatore continuava a trasmettere il segnale di attesa, tra una scarica e l’altra. Elene lo spense, gettò un’occhiata frenetica alle file di militari che sbarravano l’accesso del verde nove. — Fattorino — chiamò. Un ragazzo corse subito da lei. Erano ridotti a questo, con le comunicazioni in avaria. — Fai il giro delle navi tutto intorno all’orlo, passando dall’una all’altra più in fretta che puoi, e di’ loro di passar parola al comunicatore, se possono. Devi dire… be’, lo sai. Devi dire che ci sono guai, là fuori, e che ci finiranno dentro a testa bassa, se partono. Vai!
Forse anche il video era fuori uso. Elene aveva immaginato che l’interruzione dei contatti fosse voluta dalla Flotta: ma l’India e l’Africa erano partite, lasciando le truppe a tenere il molo, truppe che non avevano potuto imbarcare per mancanza di spazio; eppure il segnale era ancora interrotto. Era impossibile sapere quali informazioni stavano ricevendo i mercantili, quali messaggi potevano aver ricevuto i militari. Non si sapeva chi comandasse le truppe abbandonate, forse un alto ufficiale, forse un sottufficiale confuso e disperato. Bloccavano le entrate al livello nove dei moli verde e azzurro… una muraglia di soldati rivolti verso gli orizzonti incurvati che isolavano i moli dai due lati, con i fucili pronti a sparare. A Elene facevano paura non meno del nemico che stava arrivando. Avevano sparato, ucciso; e si udiva ancora qualche colpo sporadico. Lei aveva dodici subordinati, e sei mancavano all’appello… isolati dall’interruzione delle comunicazioni. Gli altri dirigevano il lavoro delle squadre dei moli per bloccare i cavi staccati, ed evitare che sfondassero le partizioni stagne… l’intero settore avrebbe dovuto venire isolato per precauzione… sempre che i suoi, lassù al comando azzurro, fossero riusciti a sistemare tutto; c’erano interruttori che non funzionavano, l’intero sistema era bloccato. Gli sbalzi di gravità li investivano ancora, a intervalli; le masse dei liquidi nei serbatoi dovevano essere travasate non appena fosse stato possibile usare i tubi, per scaricarle in altri serbatoi e compensare; la stazione aveva comandi di assetto; forse se ne stavano servendo. Era terrificante, in uno spazio enorme come quello dei moli, la fluttuazione del peso, la sconvolgente premonizione che da un momento all’altro potesse arrivare un aumento superiore a un chilo o due.