— Signora Quen!
Elene si voltò. Il fattorino non era riuscito a passare; qualche idiota, nelle file dei militari, doveva averlo rimandato indietro. Si avviò velocemente verso di lui e verso la fila che all’improvviso, inesplicabilmente, stava facendo dietro-front, e puntava verso di loro, con i fucili spianati.
Un grido echeggiò dietro di lei. Elene guardò in direzione dell’orizzonte incurvato, e vide un’ondata indistinta di gente che scendeva correndo verso di loro, al di là dell’arcata. Una rivolta!
— Chiudete! — gridò nel comunicatore portatile, sebbene sapesse che non funzionava. I militari si stavano muovendo, e lei si trovava tra loro e i bersagli. Corse verso il lato più lontano, fra il groviglio di scalette e passerelle, con il cuore in gola; si voltò di nuovo a guardare mentre la linea dei soldati avanzava, restringendo il perimetro, e poi le passò accanto, mentre alcuni di essi si piazzavano in posizione al riparo delle scalette. Elene premette il pulsante del comunicatore, disperatamente; cercò di mettersi in contatto con il suo ufficio. — Chiudete! — Ma l’orda aveva superato il punto di controllo del settore azzurro, forse era già entrata. Il chiasso aumentò: una marea che avanzava verso di loro, mentre altri continuavano a scendere dall’orizzonte, una folla impressionante che sembrava non finisse mai. All’improvviso, Elene comprese l’espressione delle facce lontane, il comportamento che non era dovuto al panico, bensì all’odio; le armi… pezzi di tubo, mazze…
I militari spararono. Ci furono urla, quando cadde la prima fila. Elene, che si trovava a meno di venti metri dietro le truppe, rimase paralizzata, vedendo l’orda che continuava ad avanzare verso di loro, scavalcando i morti.
Q. Quelli del settore Q erano usciti. Avanzavano brandendo le armi e urlando, un suono che passò da un rombo lontano a un ruggito assordante, ed erano innumerevoli.
Elene si voltò, e corse via, vacillando per gli sbalzi di gravità, sulla scia degli addetti ai moli che fuggivano, e degli indigeni che vedevano gli uomini combattere e cercavano riparo.
Dietro di lei, il frastuono divenne assordante.
Affrettò l’andatura, tenendo una mano sul ventre, per attutire i sussulti della corsa. C’erano urla, dietro di lei, quasi sommerse dal grande rimbombo. Avrebbero travolto anche i militari, si sarebbero impadroniti dei fucili… con la sola forza del numero. Elene si voltò a guardare… vide il settore verde nove vomitare altri fuggitivi sparsi, in preda al panico. Si fermò per riprendere fiato e continuò a correre, nonostante il dolore sordo dell’arco pelvico, rallentando un po’ quando era necessario, vacillando per gli sbalzi della gravità. I fuggitivi cominciarono a superarla; pochi, dapprima, poi altri, un’onda travolgente che la raggiunse mentre lei stava superando l’arcata della sezione bianca; e all’orizzonte, più avanti, una marea che irrompeva di traverso dagli ingressi del nove: migliaia e migliaia di persone correvano verso i mercantili attraccati, lanciando grida che si mescolavano alle urla più indietro, e spintonandosi.
Gli uomini che la superavano erano sempre più numerosi… insanguinati, puzzolenti, urlanti. Qualcuno le urtò la schiena, la fece cadere su un ginocchio. L’uomo continuò a correre. Un altro la urtò, barcollò e passò oltre. Elene si rialzò a stento, con il braccio informicolito, cercò di raggiungere le scalette e le passerelle, un riparo… davanti a lei risuonarono gli spari, dall’accesso di una nave.
— Quen! — gridò qualcuno. Elene non riuscì a capire chi l’avesse chiamata, si guardò intorno, cercò di lottare con la marea umana e inciampò nella calca.
— Quen! — Girò la testa; una mano le strinse il braccio e la trascinò via, e un fucile sparò sopra la sua testa. Altri due l’afferrarono e la rimorchiarono attraverso la ressa… un colpo le sfiorò la testa e lei barcollò, poi corse insieme agli uomini che cercavano di farla passare in mezzo alla rete dei cavi e delle passerelle. C’erano urla e spari: altri cercavano di raggiungerli, ed Elene si preparò a lottare, credendo che fosse la folla inferocita; ma la muraglia umana la assorbì insieme agli uomini che erano con lei. Erano dei mercantili. — Ripiegate! — stava urlando qualcuno. — Ripiegate! Hanno sfondato! — Stavano salendo una rampa, verso un portello aperto, un freddo tubo snodato che brillava di un bianco giallognolo, l’accesso di una nave.
— Non voglio salire a bordo! — protestò Elene; ma non aveva più fiato, e tutto intorno c’era una massa compatta di gente. La trascinarono su lungo il tubo, e quelli che avevano difeso l’entrata si affrettarono a seguirli appena furono arrivati alla camera di compensazione interna. Si ammassarono gli uni sugli altri mentre arrivavano gli ultimi, disperati fuggitivi. La porta si chiuse con un sibilo e un tonfo, ed Elene rabbrividì… per un miracolo, la porta non aveva stritolato qualcuno.
Il portello interno si aprì nel corridoio dell’ascensore. Due uomini grandi e grossi spinsero avanti gli altri e soccorsero Elene mentre una voce stava tuonando ordini attraverso il comunicatore. Le doleva il ventre, ed aveva le cosce intorpidite; si appoggiò alla parete e riposò fino a quando uno dei due le toccò la spalla, gentilmente.
— Sto bene — disse lei. — Sto bene.
La fatica della corsa stava passando… Elene ricacciò indietro i capelli, e guardò gli uomini, i due che l’avevano aiutata a passare tra la folla, facendole largo in mezzo ai rivoltosi. Li conosceva, e conosceva anche lo stemma che portavano, nero e senza simboli: Finity’s End. La nave che aveva perduto un figlio sulla stazione; gli uomini con i quali lei aveva parlato quella mattina. Forse stavano andando verso la loro nave, e s’erano trattenuti per salvare una dei loro, per tirare fuori una Quen dall’orda. — Grazie — mormorò. — Il comandante… per favore, devo parlargli… subito.
Nessuna obiezione. L’uomo grande e grosso — Tom, Elene ricordava il suo nome — la cinse con un braccio, e l’aiutò a camminare. Il cugino aprì la porta dell’ascensore e premette il pulsante. Uscirono nel settore centrale, affollato a causa della mancanza di rotazione. La sala principale e la sala comando erano in basso, e di due la condussero da quella parte. Adesso Elene si sentiva meglio, molto meglio. Camminava da sola, tra le file di apparecchi e l’equipaggio schierato. Neihart. La famiglia della nave era Neihart; base Viking. Sul ponte c’erano gli anziani e alcuni dei più giovani… i bambini dovevano essere sistemati in alto. Elene riconobbe Wes Neihart, il comandante della famiglia, con il volto rugoso, i capelli argentei e l’aria triste.
— Quen — disse Neihart.
— Signore. — Elene strinse la mano che le veniva offerta, ma rifiutò la sedia, e si appoggiò allo schienale. — Quelli del settore Q sono in libertà; le comunicazioni sono interrotte. La prego, si metta in contatto con le altre navi… faccia passare parola… non so cosa sia successo alla centrale, ma Pell è nei guai.