L’aprì, vide con sollievo che le luci erano accese e sentì il tintinnio della plastica in cucina.
— Elene? — Entrò. Lei stava sorvegliando il forno, voltandogli le spalle. Non si girò. Damon si fermò, intuendo il disastro, un altro mondo perduto.
Il contaminuti squillò. Elene tolse il piatto dal forno, lo mise sul banco, riuscì a guardarlo con aria composta. Damon attese, soffrendo per lei, e dopo un momento si avvicinò e la prese tra le braccia. Elene sospirò. — Sono morti — disse. E dopo un altro momento sospirò di nuovo. — Esplosi con Mariner. L’Estelle è esplosa, con tutti quelli che erano a bordo. Non possono esserci superstiti. Hanno visto quando è successo; non è riuscita a decollare in tempo… tutta quella gente che cercava di salire a bordo. È scoppiato l’incendio. E quella parte della stazione è esplosa. Esplosa.
Cinquantasei persone a bordo. Il padre, la madre, i cugini, i parenti più lontani. L’Estelle era stata un mondo a sé. Damon aveva ancora il suo mondo, per quanto danneggiato. Lui aveva una famiglia. Ma quella di Elene non c’era più.
Lei non disse altro: neppure una parola d’angoscia per la perdita subita o per il sollievo di essere scampata alla stessa sorte, di non aver partecipato a quel viaggio. Esalò qualche respiro convulso, lo abbracciò e si voltò, con gli occhi senza lacrime, per mettere un secondo pranzo nel forno a microonde.
Sedette a tavola ed eseguì tutti i movimenti abituali. Damon mangiò a fatica; aveva ancora in bocca il sapore del disinfettante ed era certo di portarlo addosso. Finalmente, colse gli occhi di Elene fissi su di lui. Erano straziati, come quelli dei profughi. Non trovò nulla da dirle. Si alzò, girò intorno alla tavola e l’abbracciò.
Elene prese le mani di Damon nelle sue. — Mi sento bene.
— Vorrei che mi avessi chiamato.
Lei abbandonò la presa, si alzò e gli toccò il braccio, con un gesto stanco. All’improvviso lo guardò, con la stessa stanchezza cupa. — Una di noi è rimasta — disse. Damon batté le palpebre, perplesso, poi si rese conto che Elene aveva alluso ai Quen. La gente dell’Estelle. Quelli dei mercantili possedevano un nome come quelli delle stazioni possedevano una casa. Elene era una Quen: e questo significava qualcosa che Damon sapeva di non aver compreso, nei mesi che avevano trascorso insieme. La vendetta era preziosa per quelli dei mercantili; lui lo sapeva… per coloro che possedevano soltanto il nome e la reputazione che l’accompagnava.
— Voglio un figlio — disse Elene.
Damon la fissò, sbalordito dalla tristezza dei suoi occhi. L’amava. Lei era entrata nella sua esistenza scendendo da una nave mercantile e aveva deciso di provare la vita della stazione, sebbene parlasse ancora della sua nave. Per la prima volta da quando erano insieme non provava desiderio per lei… no, con quell’espressione e la morte dell’Estelle e i suoi motivi di vendetta. Non disse nulla. Avevano deciso che non avrebbero avuto figli fino a quando Elene avesse saputo con certezza se avrebbe sopportato di rimanere. Ciò che gli stava offrendo poteva essere il suo consenso. Poteva essere qualcosa d’altro. Non era il momento di parlare, adesso, nella follia che li circondava. Damon la strinse a sé, l’accompagnò in camera da letto, la tenne stretta a sé durante quelle lunghe ore buie. Lei non disse nulla, e lui non fece domande.
— No — disse l’uomo al banco delle operazioni, questa volta senza guardare l’elenco; e poi, con uno stanco impulso umanitario: — Aspetti. Controllerò di nuovo. Forse non è stato scritto con quella dizione.
Vassily Kressich attendeva, nauseato dal terrore, mentre la disperazione aleggiava su quell’ultimo desolato raduno dei profughi che rifiutavano di allontanarsi dai banchi sui moli: famiglie e individui sparsi che cercavano i parenti, che attendevano notizie. Erano ventisette, sulle panche lì attorno, compresi i bambini; li aveva contati. Erano passati dal primogiorno all’altergiorno della stazione, ed erano venuti gli operatori di un altro turno al banco che costituiva una prova di umanità della stazione nei loro confronti, ma dai computer non arrivava niente di nuovo.
Vassily Kressich attese. L’operatore continuava a battere i tasti. Non c’era niente; e lui capiva che non c’era niente, dalle occhiate che quell’uomo gli rivolgeva. All’improvviso, ebbe un moto di cpmpassione per l’operatore, che era costretto a riprovare senza ottenere nulla, sapendo che non c’erano speranze, circondato da parenti addolorati, e dalle guardie armate che sorvegliavano il banco per precauzione. Kressich tornò a sedersi, accanto alla famiglia che nella confusione aveva perduto un figlio.
Ogni volta era la stessa storia. Erano saliti a bordo in mezzo al panico, con le guardie che pensavano più a imbarcarsi che a mantenere l’ordine e a far imbarcare gli altri. Era colpa loro: non poteva negarlo. La folla aveva inondato i moli, molti cercavano di salire a bordo con la forza senza le autorizzazioni assegnate al personale indispensabile destinato all’evacuazione. Le guardie, prese dal panico, avevano sparato, incapaci di distinguere fra gli assalitori e i passeggeri autorizzati. La stazione Russell si era spenta tra i tumulti. Finalmente anche l’ultima nave era stata caricata, e i portelli erano stati chiusi. Jen e Romy avrebbero dovuto essere a bordo prima di lui. Lui era rimasto, cercando di mantenere l’ordine nel posto assegnatogli. Quasi tutte le navi erano state chiuse in tempo. Ma la folla aveva assalito l’Hansford, dove le droghe si erano esaurite, dove la pressione di un numero eccessivo di passeggeri aveva devastato ogni cosa e la folla impazzita si era scatenata. La situazione della Griffin era già abbastanza tragica; lui era salito a bordo molto prima dell’ondata che le guardie avevano dovuto stroncare. E aveva sperato che Jen e Romy ce l’avessero fatta a imbarcarsi sulla Lila. L’elenco dei passeggeri aveva certificato che erano sulla Lila: almeno, secondo le comunicazioni che alla fine erano filtrate nella confusione seguita al lancio.
Ma nessuno dei due era sceso a Pell; non avevano lasciato la nave. Nessuna delle persone in condizioni abbastanza critiche per venire ricoverate nell’ospedale della stazione corrispondeva ai loro connotati. Non potevano essere stati arruolati dalla Mallory; Jen non aveva una specializzazione che potesse interessare alla Mallory, e Romy… no, le registrazioni erano sbagliate. Lui aveva creduto all’elenco dei passeggeri, aveva dovuto crederci, perché erano così numerosi che il servizio comunicazioni della nave non poteva inoltrare messaggi diretti. Avevano viaggiato in silenzio. Jen e Romy non erano scesi dalla Lila. Non c’erano mai saliti.
— Hanno sbagliato a buttarli nello spazio — gemette la donna seduta accanto a lui. — Non li hanno identificati. Lui è morto, è morto, doveva essere sull’Hansford.
Un altro uomo era tornato al banco, e cercava di sapere qualcosa, e sosteneva che l’identificazione dei civili arruolati dalla Mallory era una menzogna; e l’operatore stava effettuando con pazienza un’altra ricerca, comparando i connotati. Ancora un esito negativo.
— Lui c’era — gridò l’uomo all’operatore. — Era nell’elenco, e non è sceso, sono sicuro che c’era. — L’uomo stava piangendo. Kressich rimase seduto, intontito.
Sulla Griffin avevano letto l’elenco dei passeggeri e avevano chiesto i documenti d’identità. Pochi li avevano. Molti avevano risposto a nomi che non erano i loro. Alcuni avevano risposto a più d’un nome, per ottenere razioni doppie, cercando di non farsi scoprire. E lui aveva provato una paura profonda, nauseante: ma molta gente era a bordo delle navi sbagliate, e lui si era reso conto della situazione dell’Hansford. Aveva avuto la certezza che fossero a bordo.