Cadde un profondo silenzio. Emilio era terrorizzato. Era stata una pazzia venire da solo in mezzo a loro. Tutto il campo non sarebbe bastato a trattenerli, se avessero ceduto al panico.
Qualcuno, in fondo al gruppo, aprì la porta della cupola, e all’improvviso vi fu un brusio di voci, gente che tornava all’interno; alcuni gridavano che avrebbero avuto bisogno di coperte, che avrebbero avuto bisogno di tutte le bombole, e una donna gemeva temendo di non farcela a camminare. Emilio restò immobile mentre tutti i Q rientravano nella cupola; si voltò a guardare le altre cupole, dalle quali uomini e donne stavano affluendo in gran fretta, portando coperte e altri oggetti, una fiumana che scendeva nell’infossatura fra le colline, dove i motori ronzavano e i fari si erano accesi. I camion erano pronti. Emilio scese, a passo sempre più svelto, addentrandosi nel caos intorno ai veicoli. Stavano caricando la cupola da campo e fogli di plastica; uno dei suoi dipendenti gli mostrò un elenco, come se stessero partendo per andare a consegnare provviste. Alcuni cercavano di caricare sui camion i bagagli personali, e discutevano con gli autisti, mentre stavano arrivando i Q, e alcuni di loro portavano più di quanto avrebbero dovuto.
— I camion sono per il materiale indispensabile — gridò Emilio. — Tutti quelli che sono sicuri di farcela, andranno a piedi; i vecchi e i malati potranno salire insieme ai bagagli, e se resta spazio, potete mettere gli oggetti più pesanti… ma dovrete dividervi i carichi, chiaro? Nessuno deve viaggiare a mani vuote. Chi non è in grado di camminare?
Alcuni dei Q che erano sopraggiunti gridarono e spinsero avanti alcuni dei bambini più fragili, e alcuni dei più vecchi. Segnalarono che ne stavano arrivando altri; e le voci avevano toni di panico.
— Calma! Li caricheremo tutti. Noi viaggeremo veloci. Un chilometro più avanti comincia la foresta, e non è probabile che le truppe corazzate ci inseguano là dentro.
Miliko lo raggiunse. Emilio sentì la mano sul braccio e la strinse a sé. Era un po’ stordito: un uomo aveva il diritto di esserlo, quando il suo mondo crollava. Erano prigionieri, lassù sulla stazione. O morti. Cominciò a pensare a quella possibilità, con uno sforzo. Era scosso dalla nausea e da una collera che cercava di scacciare dai suoi pensieri. Aveva voglia di prendersela con qualcuno… e non c’era nessuno a portata di mano.
Caricarono l’unità del comunicatore. Ernst la fece sistemare sul pianale del camion; con le batterie d’emergenza e il generatore portatile avrebbero avuto modo di ricevere notizie… se fossero arrivate.
Infine, caricarono le persone, e c’era ancora spazio per i sacchi a pelo e le coperte, una specie di nido protettivo. I movimenti erano rapidi e frenetici, ma c’era meno panico; mancavano ancora due ore all’alba. Le luci erano accese, grazie alle batterie, e le cupole brillavano ancora. Ma mancava un suono, nel chiasso dei motori. I compressori tacevano. La pulsazione non si sentiva più.
— Avanti — gridò Emilio, quando gli sembrò che ci fosse finalmente un po’ d’ordine, e i veicoli cominciarono ad avviarsi lentamente lungo la strada.
Gli altri si accodarono ai veicoli, una lunga colonna sulla strada che correva parallela al fiume. Passarono oltre il mulino ed entrarono nella foresta, dove gli alberi e le colline si stringevano sulla destra, avvolti nell’oscurità. Quella marcia dava una sensazione d’irrealtà: i fari dei camion che brillavano sulle canne e sull’erba fitta, sui fianchi delle colline e sui tronchi degli alberi, le sagome degli umani in movimento, i sibili e gli schiocchi dei respiratori e il rombo dei motori. Nessuno si lamentava, e questa era la cosa più strana, nessuna obiezione, come se tutti fossero preda di una curiosa forma di pazzia. Avevano provato cosa significava l’autorità di Mazian.
Un fruscio nell’erba lungo la strada, una linea serpeggiante tra le canne. Le foglie si agitavano tra i cespugli, dalla parte delle colline. Miliko indicò uno di quei movimenti; e anche altri l’avevano notato, e mormoravano per l’apprensione.
Emilio si sentì sollevato. Strinse la mano di Miliko, la lasciò e si addentrò fra l’erba, nel fitto degli alberi, mentre i camion e la colonna proseguivano. — Hisa! — chiamò a voce alta. — Hisa, sono Emilio Konstantin! Ci vedete?
Gli hisa apparvero, avanzando timidamente nella luce. Erano pochi. Uno tese le mani, ed Emilio lo imitò. L’indigeno lo abbracciò energicamente. — Ti voglio bene — disse il giovane maschio. — Tu vai camminare, Konstantin-uomo?
— Freccia? Sei Freccia?
— Io Freccia, Konstantin-uomo. — Il volto nell’ombra si levò verso di lui, e la luce dei camion che si erano fermati illuminò il suo sogghigno. — Io corro, corro, corro, torno ancora indietro guardare voi. Tutti noi occhi per voi, fare voi sicuri.
— Ti voglio bene, Freccia, ti voglio bene.
L’hisa si dondolò soddisfatto; era quasi una danza. — Voi andate camminare?
— Stiamo fuggendo. Ci sono guai sul mondo di Lassù, Freccia, uomini-con-fucili. Forse verranno sulla Porta dell’Infinito. Fuggiamo come gli hisa, e ci sono vecchi, e bambini, e alcuni di noi non sono molto resistenti, Freccia. Cerchiamo un posto sicuro.
Freccia si voltò verso i suoi compagni, gridò qualcosa che venne ripetuto da varie voci, a toni alti e bassi, tra gli alberi e i rami. E la mano robusta di Freccia strinse quella di Emilio; l’hisa cominciò a ricondurlo verso la strada, dove la colonna si era fermata, e quelli che stavano alla retroguardia si avvicinavano per vedere cosa succedeva.
— Signor Konstantin — chiamò uno dei suoi collaboratori, dal sedile di un camion, in tono innervosito — è d’accordo che vengano con noi?
— Sì, sono d’accordo — disse Emilio. Poi, agli altri: — È una vera fortuna. Gli hisa sono tornati. Gli indigeni sanno chi è il benvenuto sulla Porta dell’Infinito e chi non lo è. Ci hanno osservati per tutto questo tempo. Voi! — disse, alzando la voce per rivolgersi ai gruppi più indietro, che non riusciva a vedere. — Sono tornati per noi, capite? Gli hisa conoscono tutti i posti dove possiamo rifugiarci, e sono disposti ad aiutarci, capite?
Vi fu un mormorio preoccupato.
— Nessun indigeno ha mai fatto male a un umano — gridò Emilio nel buio, tra il rombo costante dei motori. Strinse con maggiore fermezza la mano di Freccia, si avviò in mezzo agli altri, e Miliko lo prese sottobraccio. I camion si avviarono di nuovo, proseguendo lentamente. Gli hisa cominciarono a unirsi alla colonna, camminando tra l’erba a fianco della strada. Alcuni umani cercavano di evitarli. Altri tolleravano il tocco timido di una mano protesa… persino alcuni dei Q, seguendo l’esempio dei veterani che ormai si erano abituati.
— Sono buoni — gridò uno degli operai ai suoi compagni. — Lasciate che vadano dove vogliono.
— Freccia — disse Emilio, — abbiamo bisogno di un posto sicuro… dobbiamo trovare tutti gli umani degli altri campi e portarli in molti posti sicuri.
— Tu bisogno posto sicuro, bisogno aiuto; vieni, vieni.
La mano piccola e robusta non si staccò dalla sua, come se fossero padre e figlio; ma nonostante tutto era vero il contrario… adesso gli umani erano come bambini, avviati lungo una strada umana e conosciuta verso un luogo umano e conosciuto, ma non sarebbero tornati; forse, ammise Emilio, non sarebbero tornati mai più.