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Era straordinario con quale rapidità la Terra, con tutte le sue abitudini e le sue memorie, svanisse dalla mente di Trehearne. La lacerante angoscia della nostalgia lo riassaliva di tanto in tanto, specialmente quando giaceva solo nella sua cuccetta. Poi l’angoscia sparì ed egli cominciò a sentire per il suo pianeta d’origine il nostalgico affetto che si può nutrire per un genitore adottivo il quale, pur non assolvendo perfettamente i suoi compiti, fa pur sempre parte della nostra vita; una parte conclusa, ora, ma ai cui intermezzi luminosi e gai si può tuttavia ripensare. Non gli dispiaceva di averlo lasciato. Per un capriccio della genetica era stato fin dalla nascita straniero a quel mondo e non vi si era mai sentito veramente a casa sua. Ora rapidamente e facilmente andava ritrovando se stesso.

All’inizio vi furono periodi in cui gli pareva di sognare, gli pareva che l’astronave e tutto il resto sarebbero scomparsi ed egli si sarebbe destato. Ma via via che il suo spirito si riattivava, liberandosi dagli angusti orizzonti in cui era imprigionato, l’orgoglio e le aspirazioni ancestrali cominciavano a fremere in lui. E con questi fermenti gli nasceva dentro un insaziabile desiderio di conoscenza.

Edri era il suo miglior maestro. Chissà per quali ragioni quell’uomo brutto, dagli occhi tristi e dalla parola invariabilmente incoraggiante, l’aveva preso in simpatia! Trehearne ne era contento. Aveva bisogno di amici. Ma ce n’erano altri. Uomini e donne, per lo più giovani, sani e pieni di sé, che amavano la vita che vivevano e si divertivano un mondo alle sue stupite reazioni. Per qualche tempo lo considerarono come un animale che abbia improvvisamente imparato a parlare e a far di conto, ma poi si abituarono a lui, e non c’era mai malizia alcuna nel loro comportamento. A lui piacevano. Erano il tipo di gente che faceva per lui. Erano la sua gente.

Kerrel era corretto, ma distante. Shairn gli rivolgeva la parola quando le garbava, casualmente, come se si conoscessero da sempre e nulla di importante fosse mai accaduto tra loro. Ma talvolta gli pareva che lo guardasse in un modo che non era affatto casuale e non avrebbe saputo immaginare i pensieri di lei. Egli stava al gioco. Era difficile, quando gli ritornavano in mente tante cose. Ma resisteva. E aveva abbastanza da fare per badare alle donne. Le giornate a bordo della nave non avevano sufficienti ore per lui.

Imparava la lingua dei Vardda. Imparava i rudimenti della storia dei Vardda e le linee essenziali della loro struttura sociale. Ma, soprattutto, con innata sicurezza, imparava a conoscere lo spirito dei Vardda, il punto di vista dei Vardda, e il suo carattere si espandeva, avendo trovato un proprio scopo. Era un Vardda, e i Vardda erano gli Stellari: l’Uomo Galattico, come Edri li aveva definiti una volta, una specie unica, preparata e adatta al più splendido tra i compiti: la conquista delle stelle.

La forza, la magnificenza di quel viaggiare! Non c’era da stupirsi che le piccole navi e i piccoli cieli della Terra gli fossero sembrati così meschini! Questo era il suo retaggio, la libertà delle stelle, le lunghissime vie degli spazi infiniti, le veloci astronavi che collegavano l’uno all’altro i continenti solari, aggirandosi nel golfo immoto, illimitato, senza tempo che bagnava le rive di un universo galattico.

Rimaneva a lungo, sul ponte del vascello spaziale, a studiare le complicate manovre di comando e a rompersi il capo sulle complesse difficoltà dell’astronautica. Nel reparto generatori imparava a memoria il pulsare dell’astronave, ascoltando il silenzio del libero volo dopo che la manovra di accelerazione era stata compiuta. Faceva impazzire gli ingegneri, i piloti, i tecnici con domande delle cui risposte comprendeva solo la metà, ma gli rimaneva sempre una grande avidità di sapere di più. Apprendeva molto, eppure gli pareva nulla, ed era pazzamente desideroso di imparare, di tenere in suo dominio uno di questi orgogliosi giganti degli spazi interstellari.

I Vardda lo comprendevano. La sua avidità era anche la loro, ma a loro era mancata la naturale soddisfazione. Lo accettavano. Amavano parlare, e così a Trehearne non mancava certo chi gli insegnasse la lingua. La sua testa pullulava delle storie che gli raccontavano: viaggi attraverso la Galassia, mondi ignoti, avvenimenti nei lontani grappoli di astri, stelle spente rotanti per l’eternità, oscure nell’oscurità con i loro nuclei congelati, improvviso spaventoso dal dardeggiare di novae; collisioni di astronavi con stelle vaganti a una velocità molto superiore a quella della luce.

Trehearne era felice. Viveva come può vivere un bambino, in un mondo di meraviglie, dove tutto appare nuovo, vivido e ancora intatto. Ma una nuvola oscura gravava su di lui: la minaccia della legge dei Vardda e del Consiglio. Era possibile che tutto quanto egli aveva trovato gli venisse tolto. Più si avvicinava alla fine del viaggio, più la minaccia diveniva grande e cupa, e quando la nave entrò in fase di decelerazione essa crebbe tanto da oscurare tutto il suo orizzonte.

Ormai egli sapeva di più. Capiva come l’intera possente struttura dell’economia dei Vardda si fondasse sull’intaccabile posizione degli Stellari stessi e sulla loro abilità unica nell’Universo ad affrontare le velocità interstellari. Nel loro caso, il sangue, la razza erano tutto. Non ci poteva essere compromesso alcuno, nessuno poteva sfidare questa superiorità. Ed ecco lui stesso, un nato di razza terrestre, legato ai Vardda soltanto da alcuni geni bastardi, un compromesso e una sfida in se stesso.

«Dannazione» disse un giorno a Edri, rabbiosamente «non possono rifiutarsi di accogliermi, ora! E poi, a pensarci bene, un Vardda in più o in meno che importanza avrebbe? Il processo di mutazione è andato perduto, io non posso certo trasmetterlo a qualcun altro e non vedo di che cosa possano aver paura.»

Edri gli gettò uno sguardo cupo. «Ascoltate, Trehearne, esservi amico non mi ha certo giovato, così come stanno le cose, e non voglio peggiorare la situazione di ambedue aggiungendo al resto un complotto di tradimento. Se volete la risposta chiara e ufficiale, rivolgetevi a Kerrel.»

«Lo farò.»

Trovò Kerrel nel salone, assorto con Shairn e alcuni altri nel complicato gioco che per i Vardda sostituiva il bridge. In un gigantesco globo di cristallo erano sospesi alcuni piccoli sistemi solari. Attivati da una corrente magnetica, i minuscoli soli roteavano e i loro pianeti descrivevano orbite intorno a essi; guardarli dava le vertigini. Entro quel microcosmo vi erano una dozzina circa di minuscole astronavi azionate dai giocatori a distanza, e a complicare il gioco vi erano nebulose in miniatura, nubi di oscurità, e piccole comete. Lo scopo del gioco consisteva nel far circolare le astronavi senza perderne alcuna; ogni squadra cercava di raggiungere una meta fissata prima della flotta dell’altra. Trehearne aveva giocato qualche volta, ma senza alcun successo.

«Voglio parlarvi» disse, e Kerrel gli fece cenno di attenderlo. Con estrema rapidità e destrezza premette una serie di bottoni sul quadrante di controllo che gli stava di fronte. Dentro il globo un’astronave si abbassò per permettere a una lucente cometa di passare senza incidenti al disopra, sfiorò una nebulosa oscura, deviò di 35 gradi e compì un atterraggio perfetto su un minuscolo mondo roteante, non più grande di un ciottolo. Alla sommità del quadrante di Kerrel un segnale luminoso si colorò di verde.

Accanto a lui Shairn perdette due astronavi in una collisione e due luci rosse marcarono i punti perduti mentre i relitti uscivano automaticamente dal gioco. Shairn non guardava il globo. Osservava Trehearne e i suoi occhi erano pieni di luce.

Kerrel cedette il suo posto a un altro e si alzò. «La biblioteca è un posto tranquillo» disse. «Possiamo andare a parlare là.» Si allontanò con Trehearne. Shairn rinunciò al gioco e li seguì.

La biblioteca dell’astronave tra piccola, con microlibri allineati lungo le pareti. Si trattava per lo più di libri tecnici e Trehearne non era riuscito a cavarne fuori gran che. Si era accanito su alcuni in cui si esponeva la teoria e il funzionamento pratico delle astronavi, ma era un’impresa disperata ed egli non aveva insistito oltre. Il suo vocabolario era ancora limitato, e anche se non si fosse trattato di tecnologia la cosa era decisamente al di là delle sue capacità.