Dopo una lunga pausa Trehearne obiettò: «Ma io non sono un criminale. Non possono…»
«Possono giudicarvi un pericolo per la società, come gli Orthisti. Kerrel farà il possibile per spedirvi là: ne farà una questione di principio.»
Un astro morente, un mondo morente, solo sull’orlo del nulla. Trehearne lo guardava.
«Che fanno là?»
«Niente. Aspettano.»
«Che cosa?»
Indovinò la risposta prima che lei parlasse. Niente più astronavi, niente più viaggi, nulla a cui guardare se non l’estrema liberazione della morte. Trehearne si allontanò dallo schermo. Shairn sorrise.
«Paura?»
«Sì.»
«Io sono dalla vostra parte.»
«Davvero? State semplicemente servendovi di me per punire Kerrel di avervi infastidita?»
«Non vi fidate di me?»
«No!»
«Ma non potete farci nulla, vero?»
«Immagino di no.»
«Allora tanto vale che cerchiate di trarne il maggior profitto.»
8
La lunga curva di decelerazione era compiuta. L’astronave ora fendeva gli spazi a una velocità planetaria. Aldebaran si era trasformato da un remoto punto di fuoco in un sole gigantesco, spaventosamente vicino. Il piccolo satellite era visibile soltanto come un pallido disco sopra di esso; la sua luce azzurrastra si distingueva appena nel dilagante bagliore dell’astro.
I Vardda si erano affollati nell’osservatorio ansiosi di cogliere una prima visione della patria. Un pesante schermo riparava ora la cupola dalla intensa luce di Aldebaran e all’ombra i viaggiatori si accalcavano a chiacchierare. Trehearne stava tra loro, interessato alla loro eccitazione, sentendosi un po’ sperduto. I loro discorsi erano discorsi di stranieri, pieni di nomi e di riferimenti che non avevano significato per lui, echeggianti di una gioia cui egli non poteva partecipare. Ritornavano a casa, ed egli non aveva casa, era l’uomo più solo della Galassia. Su di lui incombevano i volti immaginati dei membri del Consiglio, nell’atto di pronunciare il verdetto, e, dietro di loro, nelle desolate solitudini dello spazio, il mondo morente di Thuvis lo aspettava.
Shairn lo tirò per una manica. «Eccolo là» gridò. «Eccolo là, Michael, Llirdis!»
Egli seguì la direzione che la mano di lei indicava, socchiudendo gli occhi per difendersi dal fulvo splendore e vide un pianeta dorato roteare intorno a loro, luminoso e bello, accompagnato nel suo moto da tre lune. Improvvisamente la maestà e la magnificenza di questa discesa dagli spazi lo invasero, dissipando i suoi timori. Era una cosa divina, entrare in un sistema solare dall’esterno, e vedere i pianeti da lontano, non più grandi di una palla da gioco, rotanti intorno al loro sole in lente orbite eterne. L’eccitazione dei Vardda si comunicò anche a lui, ma per ragioni differenti. Tra poco egli avrebbe calcato il suolo di un mondo straniero, illuminato dalla luce di un altro sole, e i venti che vi soffiavano sarebbero giunti da vette senza nome e da oceani sconosciuti. Si mise a guardare con gli altri, con la stessa intensità.
Edri gettò un’occhiata al suo viso intento e sorrise. «Mirris è dall’altra parte del sole, ma se aguzzerete lo sguardo là, a destra, lontano, vedrete Suumis, il più esterno dei nostri due prossimi vicini.»
Suumis apparve sullo sfondo delle lontane distese di spazio come una piccola mela rossa, accompagnato da un nugolo di granelli luminosi che, Trehearne lo capì subito, erano lune. Lo fissò a lungo, cercando di convincersi che la piccola mela rossa era un mondo grande come la Terra; vi rinunciò, e volse di nuovo lo sguardo a Llirdis. Si era ingrandito. Come la nave calava parve che balzasse incontro a loro, e Trehearne cominciò a distinguere continenti avvolti nella nebbia, e le grandi ombre degli oceani, immersi in un’atmosfera di vapori che si accendevano di un riflesso dorato nella luce di Aldebaran. Poi si avvicinò ancor più, riempì il cielo, si estese mostruosamente e cominciò a cadere…
Edri rise. «Illusione ottica. Ma impressionante, vero?»
Trehearne si passò le mani attorno alle ginocchia e assentì. Aveva il cuore in gola, le sue viscere erano sprofondate chissà dove e l’astronave piombava a una velocità spaventosa incontro al pianeta. Raggiunse l’atmosfera e vi penetrò come in un bagno di fuoco. Poi vi si affondò, a precipizio, lacerandola con un lungo sibilo trionfante e negli strati più bassi le nubi rotolavano e s’attorcevano in una furia lampeggiante là dove il nero scafo le fendeva. Trehearne chiuse gli occhi. Quando li riaprì l’astronave sorvolava lentamente un oceano colore del peltro e lontano, dinanzi a sé, egli scorse una costa bassa oltre la quale si stendeva un pianoro ondulato, circondato da alte montagne. Su quel pianoro distinse la balenante immensità di una città a paragone della quale New York sarebbe sembrata un villaggio.
«Ecco» disse Edri. «Il perno è il centro della Galassia.»
Trehearne si limitò a scuotere il capo. Ormai non aveva più parole. Osservava i confini della città estendersi sempre più, contemplava le torri dei suoi edifici lanciate verso l’alto come a sostenere il cielo e taceva. Sempre in discesa, ma senza rumore, in un silenzioso scivolare, l’astronave si dirigeva a sud. Laggiù si stendeva per miglia la base di atterraggio delle astronavi, gli imponenti docks tra cui si cullavano i giganti delle stelle. Laggiù era un ordinato incessante, formicolante andirivieni di uomini e di macchine che, visto dal posto di Trehearne pareva ora una specie di spuma in fermento tra le file interminabili dei docks.
I campanelli di allarme squillarono. Trehearne si riscosse dal suo stupore e scese con gli altri ad attendere il momento dell’atterraggio. I secondi trascorrevano implacabili, il sangue gli martellava le tempie e i suoi muscoli si contraevano per l’eccitazione nervosa. Atterrare. Atterrare in un mondo strano, sotto uno strano sole nuovo…
Pianamente, dolcemente la grande chiglia toccò il suolo, reduce dai confini dell’Universo.
Trehearne si alzò. Gli altri si muovevano già, riversandosi nei corridoi, ridendo, parlando, ansiosi che l’uscita di sicurezza si aprisse, ansiosi di essere a casa. Trehearne li avrebbe seguiti, ma la mano di Edri lo tratteneva e Kerrel gli stava di fronte.
«Aspetterete qui» disse Kerrel. «Edri, ne sei responsabile. Bada che non scenda dalla nave.»
Uscì e di colpo per Trehearne quella punta acuta di meraviglioso stupore era svanita. Shairn gli si avvicinò e gli sorrise in modo rassicurante. «Non preoccupatevi, Michael. Il vecchio Joris è mio amico.» Uscì anche lei e Trehearne chiese a Edri: «Chi è Joris?»
«Il coordinatore della base. Quand’era giovane volava agli ordini del padre di Shairn.» Edri si sprofondò di nuovo in una poltrona. «Tanto vale non prendersela. Kerrel è andato a fare rapporto a Joris in persona. Non è il genere di cose a cui si vuol dare troppa pubblicità.»
«Perché a Joris? Pensavo che Kerrel dipendesse direttamente dal Consiglio.»
«Certo. Ma tutto quanto avviene in questa base deve essere notificato all’ufficio del Coordinatore. Sedete Trehearne, mi rendete nervoso.»
«Pensate che Shairn potrà far qualcosa per me?»
«Lo spero. Dannazione, sedete!»
Sedette. Si udivano rumori a bordo, ma erano rumori inconsueti, l’impersonale clangore dei portelli della stiva sbattuti, il fremito delle macchine, i passi invadenti e le voci sconosciute dei portuali. I rumori della base, al di fuori, gli giungevano attutiti e smorzati come l’incessante rombo di un tuono lontano. C’era un’aria di congedo: il viaggio era compiuto. Là fuori un nuovo sole splendeva, circolava un’aria mai respirata da uomini nati sulla Terra, e un intero vasto mondo aspettava, un mondo vardda, suo quanto loro; ma egli ne era tenuto lontano, egli era rinchiuso qui come un criminale, cui si impediva perfino di parlare, mentre degli stranieri stavano decidendo del suo destino. Ne era spaventato e irritato e più si sentiva preso in trappola e impotente a liberarsi, più s’infuriava. Il suo corpo non riusciva a star fermo. Balzò in piedi e si diede a percorrere a lunghi passi il pavimento, mentre Edri lo osservava assorto.