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Riusciva a capire perché l’Orthismo avesse resistito così tenacemente per tutti quei secoli. Certamente non si era mai concepito un più nobile sogno. Per parte sua, comunque, era contento si trattasse soltanto di un sogno. Gli piaceva essere un Vardda. Gli piacevano le cose così come stavano. Erano andate abbastanza bene per tutti, e guardando al passato, riusciva a pensare a una gran quantità di gente che gli sarebbe ripugnato sapere in grado di raggiungere i suoi vicini di altri sistemi solari. Orthis, quel solitario nato nello spazio, aveva visto solo l’ideale, l’astrazione. Il Consiglio aveva tenuto conto della realtà delle cose.

Non discusse la questione con nessuno. Quella notte nel parco dei divertimenti, gli aveva lasciato viva la sensazione che l’intero argomento fosse pericoloso, specialmente per lui.

Il pensiero di Kerrel gli tornava qualche volta come un’ombra oscura e legata a esso era una tormentosa ansietà per Edri che non aveva visto prima di partire, non per ragioni di prudenza, se ne sarebbe vergognato, ma perché Edri se ne era andato da qualche parte e non si poteva raggiungerlo. Aveva inviato a Trehearne un breve messaggio augurandogli buona fortuna e questo era tutto.

A Shairn pensava il meno possibile. Non desiderava sapere che cosa stesse facendo. Preferiva ricordare le due settimane trascorse alla Torre d’argento come perse al di là di una cieca muraglia.

Continuava a leggere l’epica saga delle esplorazioni dei Vardda che avevano aperto le vie delle stelle. Studiava le leggi e i codici. Imparava tutto intorno all’astronave.

I suoi compagni di cuccetta erano più che desiderosi di far mostra delle loro cognizioni con un novellino, soprattutto perché era più vecchio di loro. Perri gli spiegava il funzionamento segreto dei vibranti giganti metallici che azionavano l’astronave: adattamenti del cosmotrone e generatore, con centrifughe sintonizzate a ultravelocità che creavano radiazioni del quinto ordine. Rohan gli lasciò manovrare le leve dei calcolatori che risolvevano problemi di matematica astrale e Yann gli insegnò a interpretare gli schermi del radar che funzionava non solo con onde elettromagnetiche lente, ma con radiazioni del genere di quelle che fornivano l’energia motrice all’astronave, essendo dotate di una velocità superiore a quella della luce. Nella cabina di trasmissione ascoltava le astronavi dei Vardda comunicare attraverso la Galassia in fitti colloqui fantomatici per mezzo degli stessi raggi supersonici. Il capitano in breve accondiscese e gli permise — ed era come realizzare un sogno impossibile — di tenere con le sue mani i comandi della Saarga.

Yann lo prendeva benevolmente in giro: «Sei solo al principio, ed è ancora divertente. Aspetta finché sarai un veterano come me.» Aveva ventott’anni. «Ho fatto nove viaggi nella Costellazione, e ne sono stulo. Tutto quello che voglio è un’astronave mia; ne affiderò il comando a qualcun altro e io me ne starò comodamente a Llirdis a spassarmela tra vino e donne.»

«Hai qualche probabilità di procurartene una?» chiese Trehearne.

«Con questo viaggio ce la farò.»

Rohan scoppiò in un fragorosa risata. «Sentilo! Non lasciarti prendere in giro, Trehearne. Guadagniamo bene, ma non fino a questo punto.»

Yann disse gravemente: «Lo dico sul serio.»

«Ti spiacerebbe dirmi come?»

«Ho risparmiato del denaro» rispose candidamente Yann, poi sogghignò. «E inoltre stai dimenticando che ho passato quasi un anno a terra, a riempir moduli per un dannato agente vardda che è morto. Non ho sprecato, il mio tempo.» Si rivolse a Trehearne: «Aspetta che facciamo scalo a quel sistema solare, ti mostrerò cose che non hai mai visto prima d’ora. Una vera barbarie. Buona gente, tuttavia. Sono in ottimi rapporti con loro.»

«Suppongo» disse Trehearne «che vi sia ogni tipo di mondo nella costellazione di Ercole.»

«Aspetta» disse Rohan acido. «Ne farai un’indigestione prima di aver finito il viaggio. Ve ne sono di belli, di pittoreschi, e di molto strani, e va bene, e alcuni anche civilizzati. Ma ve n’è una quantità infernale di semplicemente spaventosi. Avrai intuito che vi sono delle buone ragioni se riceviamo un forte compenso per questo viaggio.»

La grande costellazione di Ercole si trasformò da una piccola macchia di fosco splendore, sperduta nella vampa, nel fragore e nel tuono dell’Universo, in un mostruoso sciame di stelle, abbagliante pur attraverso l’oblò oscurato, un alveare brulicante di astri, bianchi, rossi, gialli, turchesi e verde intenso, che riecheggiava nel vuoto eterno con l’impeto e il rombo di una valanga cosmica, rotolante in qualche sconosciuta direzione, mossa dai maligni occhi ammiccanti delle variabili cefeidi. La Saarga, si immerse infine in quel brulichio e Trehearne scoprì almeno una delle molte ragioni per cui Edri lo aveva preavvertito delle difficoltà di quel viaggio a Ercole.

«Tutte le costellazioni globulari sono pericolose» gli disse Yann allegramente.

«I Centauri, Omega, eccone un’altra da far impazzire uno Stellare. Una buona astronave, un buon capitano, nessuna immaginazione, ecco cosa ci vuole per un viaggio come questo.»

Trehearne fece conoscenza delle correnti di gravità e per la prima volta in vita sua seppe che cos’era la vera paura. I generatori sussultavano incessantemente. La Saarga gemeva e scricchiolava in tutta la sua armatura, procedendo a scatti irregolari di velocità e arresti improvvisi, impennandosi e inclinandosi allorché si faceva strada tra banchi d’astri, lottando per aprirsi un varco tra intricati, instabili campi di gravità. Trehearne aveva la sensazione di essere chiuso in un gigantesco pallone che venisse scagliato qua e là tra le stelle.

Yann sogghignava: «Andrà peggio più avanti.»

E fu così. Trehearne pensava fosse impossibile per qualsiasi astronave resistere tra quelle possenti, intersecantesi correnti di gravitazione mentre gli astri si infittivano come api sciamanti. Cento volte al giorno era convinto che la fine fosse vicina e il suo unico conforto era il pensiero che la costellazione di Ercole era un luogo che si prestava di più a una morte gloriosa di qualsiasi altro visto sulla Terra. Esaurì il suo potenziale emotivo finché si sentì vuoto dentro e non soffrì più che per i rumori e le violente impennate, mentre la Saarga rollava faticosamente sulla sua rotta. Immaginava che si dovessero trovare nel cuore della costellazione, e rimase sbalordito nell’apprendere, quando l’astronave fece il suo primo scalo, che erano ancora soltanto ai margini. Era troppo scosso per curarsene, Tutto ciò che voleva era di aver sotto i piedi la terra ferma. Uscì fuori dalla camera di compressione alla luce di una stella evanescente, indicibilmente opaca e triste e posò lo sguardo su un oscuro pianoro, scarsamente illuminato anche a mezzogiorno dal riflesso di astri lontani che ardevano solitari. La pianura era nuda, battuta fino alle rocce sottostanti dai venti che la percorrevano impetuosi, arida, disseccata, fredda.

Ma vi si ergeva una città nitida, gaia e colorata.

A Trehearne faceva venire in mente un trucco troppo vivo sul volto di un cadavere. La Saarga scaricò cibarie, metalli e svariati articoli voluttuari, ricevendo in pagamento gemme di porpora reale estratta dalla roccia grigia da piccoli uomini dagli occhi tristi. Il luogo incominciava a dare sui nervi a Trehearne. Il suo lavoro lo teneva nelle vicinanze dell’astronave a controllare le bollette di carico, ma aveva modo di osservare la gente che veniva dalla città. Erano uomini sani, ben nutriti, ben vestiti. Ma avevano certi corpi macilenti e anche i volti dei fanciulli esprimevano una tristezza che sembrava essere parte di loro come la luce morente del sole e il suolo inaridito. Notò l’espressione con cui guardavano la grande astronave e gli ardenti astri fiammeggianti che essi non avrebbero mai potuto raggiungere. Non parlavano molto. Se ne stavano immobili a guardare. Ma una volta un gruppo di ragazzi sgattaiolò vicino a lui e un bambino gli chiese nella lingua franca dei modi commerciali: «Che cosa si prova a volare tra le stelle?»