La Saarga non si fermò lì a lungo e Trehearne ne fu contento. «Dannazione!» disse a Yann. «Quei ragazzini ti spezzerebbero il cuore. Non si potrebbe trasferirli altrove o far qualcosa? Muoiono lentamente con il loro mondo.»
Yann scosse il capo. «Si è tentato, ma senza riuscirvi. A velocità planetarie per superare una distanza anche relativamente piccola tra le stelle, ci vogliono degli anni, e la maggior parte della gente non vi è preparata psicologicamente. Crollano in un modo o nell’altro oppure avvizziscono e muoiono. Inoltre, suppongo vi sia una specie di ecologia interstellare. I mondi vecchi muoiono e i nuovi nascono e se si comincia a distruggere l’equilibrio naturale, non si otterrà altro che di sovraffollare i pianeti abitabili di popolazione in numero maggiore di quanta ne possano sostentare.»
Pensando ai bambini, Trehearne sbottò: «Al diavolo l’ecologia. Sono esseri umani!»
Il giovane Perri si strinse nelle spalle. «A ognuno tocca la propria sorte. Ti ci abituerai. Qualcuno sa quale sarà il prossimo scalo?»
«È ai margini della costellazione» disse Yann. «Un bel posto. Piacerà a Trehearne: non vi sono affatto abitanti.»
L’istruzione di Trehearne in fatto di diritti, privilegi e doveri dei Vardda era solo all’inizio. La Saarga rallentò di nuovo nelle vicinanze di una variabile a cumuli dal più funesto aspetto e si diresse verso un pianeta che si rivelò degna creatura di tale genitore. «Ecco dove ci guadagniamo la nostra paga» disse Yann.
«Scafandri antiradiazione. Equipaggiamento completo. Soltanto il Vecchio non ne fa uso.»
«Che cosa facciamo?» Trehearne desiderava saperlo.
«Raccogliamo funghi» gli rispose Rohan, con un’aria poco allegra. «Se ne estrae un antibiotico particolarmente efficace, una volta che siano stati opportunamente trattati, ma nel frattempo sta’ attento. Sono dannatamente velenosi. E bada che il tuo respiratore a ossigeno sia in perfetto ordine. L’aria è satura di metano.»
«Non se ne cura, lui» lo canzonò Yann. «Ha la testa ancora piena delle meraviglie dei nuovi mondi.»
«Smettila di prendermi in giro» brontolò Trehearne. «È vero.»
11
Trehearne uscì in fila indiana con gli altri, l’equipaggio dell’astronave quasi al completo, per raccogliere quella strana messe. Lo scafandro antiradiazioni che egli indossava non era troppo pesante — non avrebbe potuto esserlo per uomini che dovevano compiere un così duro lavoro — una semplice tuta di tessuto metallico flessibile, con un casco munito di microfono e una bombola di ossigeno che poteva essere rapidamente sostituita quando si fosse consumato. Il mondo in cui si trovava era come evocato da un incubo. Funghi più alti di lui crescevano fitti, l’orrida caricatura di una foresta, in colori che variavano dal nero al cremisi a un giallo di cervelli putrefatti. La stella gigantesca — una stella malata, insana, pensò Trehearne, come tutte le variabili a brevi periodi — incombeva nel cielo infetto, avendo oltrepassato ora il culmine massimo del suo splendore ma riversando ancora le sue febbrili energie in un purpureo bagliore di sangue. Trehearne fece una smorfia e scosse il capo. «Questo» disse «è un pianeta che potrebbe piacere solo a Weizsacker.»
La voce di Perri gli giunse attraverso il microfono del casco, stranamente sottile, ma così vicina che Trehearne trasalì. «Chi è Weizsacker?»
«Un Terrestre che ha una sua teoria. Avanzò l’ipotesi che molte stelle hanno pianeti loro propri.»
Rohan chiese incredulo: «Intendi dire che qualcuno ne abbia mai dubitato?»
«Oh, certo. In realtà è tuttora opinione generale che il Sole sia l’unica stella circondata da pianeti, e che il terzo pianeta del Sole, cioè la Terra, sia l’unico pianeta dotato di vita, soprattutto di vita intellettiva.»
Rohan imprecò e poi scoppiò a ridere. «Non ho mai visto tanta vanità. Mi sembrava tu avessi detto che i Terrestri sono civili. Soltanto i selvaggi hanno una così alta considerazione della loro importanza.»
Armati di coltelli ricurvi e di grandi sacchi di una sottile sostanza plastica flessibile come un tessuto ma impermeabili all’aria una volta sigillati, si sparsero qua e là tra la giungla di funghi. Si tenevano più o meno uniti in piccoli gruppi. Trehearne li poteva sentire discorrere, una confusione di voci nel microfono. Egli stesso continuava a parlare, non di qualcosa in particolare, parlava soltanto per sentire un’altra voce umana. Provava una strana e via via più spiacevole sensazione di isolamento, chiuso dentro il suo scafandro, respirando aria artificiale, impossibilitato a guardarsi intorno dal casco che limitava il suo campo visivo. Si muoveva con difficoltà nel terreno melmoso in cui a ogni passo affondava fin quasi alle ginocchia. La luce era livida e feriva gli occhi, l’orrenda vegetazione diventava ogni minuto più orrenda, i suoi vividi colori sempre più ripugnanti. Era difficile dire chi gli fosse vicino perché tutti erano mascherati, privati di ogni umana sembianza dagli scafandri informi. Cercò di tenersi vicino a Yann e ai due ragazzi, identificandoli dalla voce.
«Non affannarti con i più grossi» gli consigliò Yann. «Non sono buoni. Qui, guarda questi, piccoli, graziosi, che stanno spuntando proprio ora. Di questi abbiamo bisogno.»
Trehearne gettò un’occhiata dubbiosa al suo sacco e poi ai piccoli cappelli simili a funghi da prato che spuntavano su dal terreno. «Ci vorrà un bel po’ di tempo per riempire questo affare.»
«Ore. Meglio cominciare.»
Trehearne si mise pazientemente al lavoro, piegato in due o accovacciato goffamente sulle ginocchia. Il sudiciume del luogo incominciava a innervosirlo. Inevitabilmente di tanto in tanto spezzava qualche fungo adulto e veniva spruzzato da una polvere nera come la fuliggine o rosa cupo o di un rosso ripugnante o gialla, o avvolto in nuvole di spore. Cercava di star dietro agli altri, ma di quando in quando ne perdeva le tracce. A volte non gli rispondevano quando li chiamava. Un pauroso senso di isolamento si insinuava in lui e faticava a dominarlo. Sudava abbondantemente dentro lo scafandro. Sentiva una grande stanchezza ai muscoli, eppure il grande sacco non era ancora pieno.
La luce della stella variabile incominciava visibilmente a svanire. Trehearne si guardò intorno. Una livida muraglia lo rinchiudeva. Non si vedeva nessuno. «Yann?» chiamò. «Perri?»
«Ohi!» Era la voce di Perri.
«Brutto lavoro, vero?»
«Disgustoso. Dov’è Yann?»
«Non so. Yann?»
«Qui, dannazione! Se lavoraste di più e parlaste di meno, ce ne andremmo da questo meraviglioso giardino un po’ prima.»
Trehearne non riusciva a individuare la loro posizione. Le loro voci risonavano uguali, come se tutte e due gli parlassero da dentro il casco. Continuò a lavorare, sperando di riuscire a vedere qualcuno. Il sole malato aveva consumato le sue riserve di energia e calava esausto sempre più debole, più rosso, con gli effetti di un insolito tramonto. Una specie di oscura foschia si insinuava ai piedi dell’alta vegetazione deforme. Trehearne incominciò a sentirsi a disagio. Sapeva che si trattava solo dell’effetto depressivo del paesaggio circostante e dello scafandro che lo imprigionava. Si rifiutò di farci caso. Ma non riusciva a liberarsene. Ritornava a ondate, facendolo trasalire, facendogli rizzare i capelli sul capo. Egli continuava accanitamente a gettare nel suo sacco i piccoli funghi. Desiderava ora più che mai parlare, ma aveva paura, paura che questo suo irragionevole timore si rivelasse nella voce e lo sminuisse davanti agli altri. Incominciò a spostarsi avanti e indietro, cercando di trovare qualcuno, ma non vi riuscì sebbene sapesse che dovevano trovarsi nelle vicinanze. Aveva un gran caldo, ma sentiva freddo alla schiena e gocce di sudore gelato gli colavano giù. La malsana foschia diventava più fitta, e le ombre erano rosse. Con la coda dell’occhio percepì dei movimenti, come se qualcosa o qualcuno camminasse furtivamente celato dalla fitta vegetazione.