«Yann?»
«Che cosa?» Una voce senza corpo, senza distanza, gli parlava lieve nell’orecchio.
«Non ci sono esseri viventi qui, vero? Intendo, eccetto questi funghi puzzolenti.»
«Non che qualcuno sappia, almeno. Perché?»
«Non importa. Era solo un inganno delle ombre, suppongo.»
«Stai diventando nervoso, giovane Terrestre.»
«Senti, al diavolo tu e i tuoi frizzi mordaci.»
«Non darmi peso» disse Yann tranquillamente. «Siamo tutti un po’ nervosi. Io ho quasi finito, e tu?»
«Non ne avrò per molto.»
«Bene, affrettati.»
Silenzio. Di tanto in tanto un brusìo di voci incomprensibile, confuso nel microfono del casco. Gli uomini non parlavano più tanto, ora. Erano stanchi, e il luogo li opprimeva. Il loro umore era in declino come la luce del sole che inondava metà del cielo di un rosso bagliore come di sangue che colasse. Trehearne teneva d’occhio costantemente le ombre, voltandosi inquieto qua e là con l’impressione di un’oscura presenza alle sue spalle. Aveva ancora i nervi tesi, in allarme, e non riusciva a calmarsi. La sua sacca era quasi piena. Pensava alla nave, alle luci, ai visi familiari, a quando si sarebbe tolto di dosso la pesante armatura. Una mostruosa escrescenza a forma di ventaglio spiccava cremisi nel bagliore del tramonto. Aveva da un lato un gonfio fungo tondo, nero, e dall’altro un mostruoso esemplare rugoso e accartocciato, maculato di bruno e di giallo. Ai suoi piedi cresceva una nidiata di piccoli funghi, in numero sufficiente da riempire lo spazio rimanente nel sacco di Trehearne. Vi si avvicinò, sfiorando il fungo maculato e accartocciato. Sentì alle spalle uno strappo e uno scatto improvviso. Si voltò affondando nella muffa con i pesanti stivali. Si voltò più presto che poté, ma non c’era nessuno, nulla; poi gli balenò alla mente che cosa doveva essere accaduto: il suo respiratore si era svitato.
Cominciò a urlare. Non gli importava di sprecare il fiato, gliene rimaneva ben poco. Gridò, preso da un panico selvaggio e cominciò a correre, senza direzione, cozzando e inciampando nei funghi, cercando disperatamente qualcuno che lo salvasse dalla morte «Dove sei?» gli gridavano le voci nel casco. «Dove sei?» Ed egli continuava a urlare: «Qui!» Come se questa parola avesse un significato preciso, come se gli altri potessero capire dal suono della sua voce se si trovava a dieci piedi o a mezzo miglio di distanza.
La valvola automatica si era chiusa di scatto per impedire la fuga dell’aria rimasta ancora nello scafandro, ma respirare diventava difficile. I suoi polmoni avrebbero consumato l’ossigeno restante in un minuto o due e allora non gli sarebbe rimasto che soffocare dentro lo scafandro, o liberarsi del casco e lasciare che i mefitici effluvi di metano che quel mondo aveva per atmosfera gli bruciassero l’organismo. Era un gran brutto modo di morire e vi si ribellava e non sapeva rendersi conto di come tutto fosse accaduto. Doveva aver urtato con il respiratore contro il fungo, quello orribile che pareva un mostruoso cervello. Doveva essergli passato troppo vicino ed essersi impigliato in qualche dura escrescenza… Si faceva buio e lo prendeva un senso di nausea allo stomaco e i suoi polmoni ansavano, affaticati, a vuoto.
Tentò di urlare di nuovo e non vi riuscì. Le ginocchia gli si piegavano e cadde, come tra le braccia di una figura informe, ma umana che gli sussurrava cose incomprensibili. Si sentì capovolgere. Ci fu un momento in cui l’oscurità calò quasi completamente su di lui e poi un fiotto di ossigeno, puro e fresco, fluì nel casco. Il meccanismo, che si era appena arrestato, ricominciò a funzionare: faticosamente, con sbuffi e gorgoglii, ma funzionava. La voce di qualcuno giunse fino a lui, raccomandandogli per carità di non perdere i sensi con il casco in testa e riuscì a sedere e a guardarsi intorno. Due uomini erano curvi su di lui e un terzo stava alle loro spalle. Poté riconoscerli attraverso le maschere. Nessuno di loro era suo compagno di cabina. C’era qualcun altro che lo sosteneva dal dietro. Udiva ancora un cicaleccio di voci che chiedevano risposta. Gli parve di distinguere le voci di Rohan e Perii, ma non ne era sicuro. «Chi mi sta alle spalle?» chiese. La voce gli uscì arrochita. La gola gli doleva. «Chi è là?»
«Io, Yann. Ben tornato. Trehearne. Per un minuto ho pensato che stessi per andartene.»
«C’è mancato poco, dannazione.»
La lingua gli pesava come piombo. «Non so che cosa sia accaduto…»
«Il respiratore si è impigliato da qualche parte» disse uno degli uomini premurosamente, non rivelando a Trehearne nulla di nuovo. Egli mugolò: «Ma come? Pensavo di essermi impigliato in uno di questi brutti mostri, ma si rompono così facilmente…»
«Si induriscono col tempo. Guarda.» L’uomo tese una mano ad afferrare una protuberanza cornea. «Offrono molta resistenza, specialmente se la valvola del tuo respiratore non era ben assicurata.»
Non ricordava di aver notato protuberanze del genere, e l’esemplare maculato a forma di cervello gli era parso fresco e giovane. Ma lasciò cadere la cosa. Non sapeva assolutamente che altra risposta avrebbe potuto esserci, e in quel momento non voleva pensarci più. Tutto si perdeva nell’irresistibile desiderio di ritornare alla nave. Si rizzò barcollando e il vigoroso braccio di Yann lo sorresse. «Comunque» disse agli uomini che gli stavano di fronte «grazie, per avermi salvato la pelle.»
«Ringrazia Yann. Quando noi siamo arrivati aveva già avvitato il respiratore. Venivi dritto verso di noi ma forse non ce l’avresti fatta se non t’avesse raggiunto per primo.»
Trehearne si volse a Yann: «Grazie.»
«Non c’è di che. Non dico che ti avrei strappato a qualcosa o a qualcuno a rischio della mia vita, Trehearne, ma dal momento che si trattava di una cosa da niente, non pensarci neppure. Ho avuto semplicemente la fortuna di trovarti e la prossima volta non allontanarti tanto.» Sogghignò e spinse avanti Trehearne. «Non hai ancora finito. Devi ancora spiegare al Vecchio perché hai perduto il sacco.»
«Oh Dio» mormorò Trehearne. Ma non si voltò indietro. Se il capitano voleva il sacco poteva sempre andare a cercarlo.
La Saarga cigolò; gemette e si addentrò rollando nella costellazione, toccando questo e quel porto come una nave mercantile, dovunque vi erano affari da concludere e carichi da imbarcare. Soltanto, i suoi porti erano dei pianeti e i suoi mari erano i golfi oscuri che si aprivano tra di essi. La memoria di quanto era accaduto sul pianeta della stella variabile sbiadì nella coscienza di Trehearne, benché talvolta egli si svegliasse di soprassalto per l’orribile impressione di soffocamento che lo opprimeva nel sonno. Ma l’alternarsi di luoghi e di persone sempre diversi, sempre nuovi gli davano troppo da pensare perché perdesse il suo tempo ad arrovellarsi su qualcosa che era ormai passato. Insensibilmente, attraverso l’abitudine e la comunicazione continua con i compagni, perdeva coscienza della sua singolarità, sentendosi un Vardda autentico come fosse nato a Llirdis. Il primo folgorante stupore fanciullesco si era logorato. Navigare tra le stelle come tra isole cominciò a sembrargli la cosa più naturale del mondo. L’interesse rimase, ma il senso di terrore reverenziale scomparve. Fecero scalo a sistemi planetari che avevano un alto grado di civiltà e in cui Trehearne vide per la prima volta le basi commerciali dei Vardda, enormi complessi isolati, regolati da speciali convenzioni, con un gran numero di magazzini colmi di merci provenienti da tutta la Galassia. Il sistema del centro di raccolta isolato, del campo d’atterraggio e dell’agenzia vardda era diffuso ovunque il commercio fosse abbastanza florido da garantirne lo sviluppo anche su pianeti barbari. «Ecco dove si fa fortuna» gli diceva Yann, sogghignando.