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La Saarga planò su un pianeta dalla luce smeraldina. Oltre all’astronave il campo d’atterraggio accoglieva una mezza dozzina di vecchi apparecchi interplanetari traspostati qui pezzo per pezzo dai Vardda che se ne servivano per le comunicazioni tra i desolati pianeti di quel sistema. Il grande stabilimento, chiuso da una palizzata, era uno dei più imponenti che Trehearne avesse mai visto e il più strano. La palizzata e le pareti dei magazzini erano di cristallo proveniente dalle foreste cristalline che ricoprivano vaste estensioni di terreno. Trehearne li vedeva come alberi e foreste semplicemente perché presentavano tronchi e rami, ma in realtà erano di natura inorganica, scintillanti proliferazioni di strani sublimati chimici. Sotto l’ardente sole verde splendevano scintillanti, mandando bagliori di colori incantati là dove la luce s’infrangeva su una formazione prismatica. Anche i raggi multicolori delle stelle più lucenti che ardevano nel cielo perfino durante il giorno s’impigliavano tra i loro rami splendenti. Dietro lo stabilimento sorgeva un villaggio. Anch’esso era costruito in blocchi di cristallo su fondazioni di roccia nera sprofondate in una melma. Fitti vigneti dai frutti carnosi si arrampicavano per ogni dove. Il sottobosco, di un verde quasi nero, cresceva tra gli alberi. C’era un penetrante odore di umidità nauseante, dolce. Trehearne sbrigò i suoi lunghi turni, affaticandosi in un bagno di giada fusa. Era un pianeta grande e pesante. La forza di gravità lo opprimeva. Le lettere dei listini doganali gli ballavano dinanzi agli occhi. Quando ebbe finalmente compiuto il suo lavoro trovò Rohan e Perri ancora affaccendati, ma Yann aveva sbrigato tutto e lo attendeva.

«Vieni con me ora» disse Yann facendo schioccare la lingua. «Vino, tenuto in fresco in pozzi profondi. Farà di te un uomo nuovo.»

«Che accidente di pianeta» borbottò Trehearne.

«Dovresti vedere gli altri di questo sistema. Questo è il migliore di tutti.»

Attraversarono il cortile esterno dello stabilimento, una specie di serraglio affollato di gente di altri pianeti, venuti per commerciare. Creature a sangue freddo dagli occhi color cremisi, principi ofidi dei pianeti più vicini alla stella, avvolti in mantelli dorati per ripararsi dal gelo. Sparuti re, ricoperti di pelo, dei pianeti più lontani, incappucciati e adorni di pietre preziose, immobili e ansimanti nel caldo. Questi e altri osservarono i due alti Vardda, immersi nei propri pensieri.

Attraversarono il cancello e uscirono dallo stabilimento, affondando nel fango. Il sole tramontava in una fosca luce di un livido verde, screziata qua e là di variopinte sfumature. Trehearne guardava il villaggio, i vicoli tortuosi, le casupole di cristallo raccolte in una loro sordida bellezza, e la foresta di alberi fatati che si stendeva intorno. Un dubbio lo assalì.

«Forse avremmo dovuto rimanere alla base. Ci deve essere una quantità di vino e l’ambiente è più confortevole.»

Yann imprecò contro di lui con bonaria allegria. «Ti ho detto che conosco questa gente meglio dei miei stessi figli! Vieni Trehearne, non c’è niente da fare alla base. Non desideri vedere qualcosa di nuovo?»

Trehearne lo desiderava. Era stanco fino alla nausea dello stabilimento dopo quei lunghi turni di lavoro sfibrante. Alzò le spalle, e si assicurò che il disgregatore prismatico a tubo fosse al suo posto, nel fodero della cintura. Era consuetudine che quando i Vardda andavano in giro in pianeti strani, portassero con sé un’arma. Talvolta era necessaria. Yann notò il suo gesto e sogghignò. La sua custodia era vuota.

«Mi sentirei più sicuro se ne avessi uno anch’io» disse. «Ma questa gente che andiamo a trovare è mia amica. Si offenderebbero a morte se io andassi da loro armato, un segno di sfiducia. Fa’ attenzione!» Lo precedette giù per la strada fangosa e Trehearne lo seguì.

Sopraggiunse la notte. Il cielo meraviglioso della costellazione incombeva su di loro, disseminato fino a divampare di stelle splendenti come lune. Gli alberi di cristallo assumevano l’aspetto di fuochi opalini. I muri delle capanne mandavano vividi bagliori. Intorno ai Vardda si raccolse una folla di fanciulli dagli occhi come prugne selvatiche, silenziosa e solenne, la pelle di un verde opaco. Le donne sulle soglie li seguivano con lo sguardo. Di aspetto abbastanza umano e anche piacente, le più giovani, dalla liscia pelle verde oliva, avevano i fianchi avvolti in lucide sete provenienti da Llirdis, e portavano ornamenti nei capelli.

Yann chiacchierava allegramente mentre percorrevano le vie tortuose, raccontando qualcuna delle sue numerose scappatelle e avventure, e dei mezzi ingegnosi con cui era riuscito a truffare la direzione della base.

Gli sguardi curiosi e ostili delle donne li seguivano e di tanto in tanto un uomo sputava in segno di spregio nel fango, al loro passaggio.

Giunsero infine a una casupola al limite estremo dell’abitato. Davanti alla porta erano legati a due a due otto animali della grandezza di un cane da caccia, bianchi come il latte, il muso e le zampe scuri, i corpi flessuosi, agili e slanciati, fatti per la corsa. Emisero acuti guaiti e balzarono verso gli stranieri, non appena li videro, mostrando avide zanne. Trehearne pensò che assomigliavano a gigantesche donnole, e ne avevano l’aspetto inoffensivo.

«Segugi» disse Yann. «Kurat è un cacciatore. Ho trattato personalmente con lui certe partite di pelli.» Strizzò l’occhio e chiamò a gran voce Kurat, evidentemente invitandolo nella lingua del luogo a uscire a dare il benvenuto a suo fratello.

Comparve un uomo snello, dalla forte muscolatura. Aveva una fascia di seta azzurro vivido intorno ai fianchi e una collana di metallo battuto. Salutò Yann con grida di gioia. Trehearne sorrise dentro do sé. Appartenevano allo stesso tipo quei due, il Vardda e il cacciatore: erano un paio di simpatiche canaglie. Kurat gli rivolse il benvenuto nella lingua franca delle città commerciali. Un fratello. Egli spinse Trehearne nell’interno della capanna davanti a sé.

Vi era riunita una numerosa famiglia. Un vecchio e una vecchia sedevano in un angolo, in ozio. Bambini e ragazzetti si rincorrevano per la stanza. La goffa moglie di Kurat veleggiava imperturbabile tra di essi. Una bella donna più giovane entrò con una grande caraffa gocciolante e ne versò il contenuto nella tazza di Trehearne. Il vino era freddo, e aspro. Trehearne ingollandolo di un fiato, cominciò a dimenticare il caldo e la stanchezza. Poi, alzando lo sguardo al viso della giovane donna, fu stupito di scoprire tanto odio nei suoi occhi intenti.

Disse all’improvviso: «Perché ci odiate così?»

La donna scoppiò in una risata dal suono metallico. «Esiste un mondo in cui i Vardda siano amati?»

«Perché siamo capaci di volare tra le stelle e voi no?»

«Perché noi pure avremmo potuto dominare le stelle e voi Vardda ce lo avete impedito!»

Trehearne la fissò, sconcertato da quell’improvviso tono appassionato. «Ma il segreto andò perduto…»

«Oh, sì! E anche in questo mondo remoto sappiamo come andò perduto! Tutto l’Universo ha sentito parlare di Orthis e di come i Vardda lo confinarono nelle profondità dello spazio e di come lo eliminarono perché avrebbe voluto comunicare la sua scoperta, e così voi siete liberi e io sono incatenata e così i miei figli dopo di me, per sempre.»

Si distolse bruscamente da lui. Egli la seguì con lo sguardo, rattristato da questa nuova dimostrazione di quanto profonda e amara fosse l’ostilità che covava dietro i visi dei non-Vardda.

Ma Yann scosse le spalle. «Kurat ha fatto buona caccia oggi, una pelle rara. Vieni fuori a vedere, potrebbe valere molto denaro.»

Meno per interesse che per sfuggire a un senso di oppressione, Trehearne si alzò. Uscirono da una porta dietro la casupola. A qualche distanza c’era una rimessa dove, disse Kurat, la pelle era stesa a seccare. Yann e lui chiacchieravano nel gergo straniero. A Trehearne l’intera faccenda non interessava un gran che.