Era buio dentro la rimessa. Yann disse: «Aspetta un momento mentre faccio luce.»
Trehearne aspettò, ma non molto. La luce esplose all’interno del suo cervello. Udì Kurat mugolare alle sue spalle nello sforzo di colpirlo, poi ridere. Anche Yann rideva.
Trehearne ebbe un momento di furia assassina e poi il pianeta della stella verde scomparve ai suoi occhi. Quando riprese conoscenza, si trovò bocconi con il viso nel fango, spogliato della tunica, della cintura ingioiellata, dell’arma e dei sandali. La capanna di Kurat era scomparsa e con essa la città. Si trovava nella foresta, circondato da alberi, i cui rami di cristallo scintillavano al lume delle stelle desolate. La testa gli doleva violentemente.
Si alzò barcollando con un unico pensiero nella mente: la ferma decisione di mettere le mani sul suo buon amico Yann. Mosse tre passi senza una direzione particolare, poi si fermò improvvisamente, immerso in un bagno di sudore diaccio. A qualche distanza, non troppo lontano, udì l’acuto guaito degli strani segugi di Kurat.
13
La mente di Trehearne si schiarì con uno sforzo quasi fisico. I fumi del vino e la fitta oscurità, succeduta al colpo, si diradarono. Il dolore rimase, ma riusciva a pensare. Riusciva a ricordare. Il pianeta della stella variabile.
L’uomo vestito di scuro, che diceva: "Delitto".
Delitto. Yann.
"Non ringraziare me, è Yann che ti ha salvato. Lui ha riavvitato il tuo respiratore…"
Pazzie. Non poteva essere stato Yann.
Ecco com’era. Lui li aveva seguiti docilmente nella trappola e si era seduto docilmente a bere mentre Yann e Kurat parlavano allegramente di come farlo fuori, precisando i particolari.
Il latrato della muta era vicino.
Non volevano che il suo corpo rimanesse nella casupola o in città. Non volevano che la cosa avesse l’aspetto del delitto. Lo avrebbero portato nella foresta, e poi gli avrebbero aizzato contro i segugi, lasciandoli a compier l’opera. Chi si poteva accusare se un Vardda ubriaco si era spinto fin là dove non aveva nulla da fare ed era stato assalito da una muta di segugi? Si chiese se Yann e Kurat stessero seguendo la caccia. Si chiese perché Yann volesse sopprimerlo.
Yann. Quello sporco traditore figlio di un cane…
Trehearne cominciò a correre.
Le viti che si arrampicavano in un groviglio su per gli alberi di cristallo erano come lacci tesi a imprigionargli i piedi. Cadde e si alzò e si mise a correre di nuovo e il terreno melmoso affondava morbido sotto i suoi piedi come sabbia. Aveva caldo, e si sentiva pesante, pesante dell’impaccio di quel pesante pianeta.
Dietro di lui, nitido e acuto, era l’yap-yap-yaaahh! delle gigantesche donnole di Kurat lanciate su una pista fresca. I rami di cristallo scintillavano e balenavano le punte lucenti al chiarore delle stelle aguzze come lance. Trehearne si fermò e tentò di spezzarne una ed era come tentare di spezzare una sbarra di acciaio con le mani nude. Vi rinunciò e fuggì via, senza sapere dove fosse e dove stesse andando, con l’unica volontà di tenersi il più lontano possibile dagli agili demoni bianchi che lo inseguivano. Si trovò dinanzi un piccolo fiume, nero e tiepido. Vi entrò a guado, seguendo la corrente, immergendovisi fino alla vita, nuotando nelle pozze più fonde. L’aspro sapore del vino gli aveva messo sete e bevve. L’acqua aveva un disgustoso sapore di pece e calcina e la sputò, ansimando. Udì il latrato dei segugi mutarsi in un guaito lamentoso mentre esploravano le rive, là dove egli si era tuffato. Si adagiò sul fondo e li ascoltò correre avanti e indietro. Gli parve di udire una voce d’uomo gridare, ma non ne era sicuro. Proseguì, abbandonando il fiume e addentrandosi nella foresta. Le grandi stelle gli incombevano sul capo e il suo corpo era oppresso dal peso della gravitazione.
Invocò di poter trovare un ramo caduto, ma non ce n’erano. Invocò di ritrovare il villaggio, ma anche questo gli era impossibile. Corse pesantemente sotto gli alberi scintillanti e alle sue spalle gli animali emisero d’improvviso un latrato sonoro, pieno, più lontano ora, ma ugualmente raccapricciante. Non ci sarebbe voluto molto perché lo raggiungessero.
Misurò gli alberi con uno sguardo per arrampicarvisi e cercarvi rifugio. Erano vitrei, deformi, e bassi. Ricordò i lunghi corpi scattanti delle bestie simili a donnole. Pensò che avrebbero potuto spiccar salti alti quanto bastava per gettarlo a terra. Proseguì barcollando e ogni volta che cadeva era più difficile rialzarsi. Un’ira terribile era in lui, ira contro Yann. Non era leale. Non era leale obbligare un uomo a fuggire così per salvarsi la vita in un mondo in cui non era possibile fuggire. L’ululato della muta si avvicinava.
D’un tratto, da chissà dove, più avanti, rispose il latrato di altri segugi. Non aveva senso proseguire. Inghiottì l’amaro nodo di paura che gli attanagliava la gola e cercò un’arma, qualcosa, qualunque cosa da tener in mano con la quale colpire almeno un poco prima di esser sbranato.
Si avvide che i latrati degli animali più avanti provenivano sempre dallo stesso luogo. Erano di irritazione. Non stavano cacciando. Erano alla catena. Trehearne trasse un profondo respiro. Ricominciò a correre.
C’era una radura. La vide davanti a sé, indistinta, tra il lume delle stelle e gli alberi. Fece uno sforzo per raggiungerla e la muta tumultuava alle sue spalle. Inciampò e cadde bocconi e ne fu quasi contento perché andò a finire su un groviglio di rami, accumulatisi quando gli alberi di cristallo erano stati abbattuti. Ne raccolse uno. Non era lungo, ma era acuminato e pesante. Era meglio che niente. Si lanciò con esso verso l’orlo della radura e là i segugi lo aggredirono.
Veloci e flessuosi, bianchi come ghiaccio al chiarore delle stelle, giunsero balzando leggeri tra gli alberi scintillanti. Ulularono una volta, tutti insieme, e poi s’acquetarono, poi scattarono come frecce, lanciati verso di lui attraverso l’aria. S’appoggiò col dorso a un tronco vitreo e vibrò il ramo di cristallo spezzato. Ne colpì qualcuno. Ma le loro zanne gli s’immergevano nella carne come ferri roventi.
Nel mezzo della radura sorgeva una capanna. Quattro segugi erano legati, lì accanto. Si trattava di quelli che avevano risposto con i loro latrati alla muta di Kurat. Ora digrignavano i denti, guaivano e cercavano di liberarsi dalla catena. Un uomo, una donna e un ragazzo alto uscirono dalla capanna. Il ragazzo si diede a correre verso Trehearne gridando. L’uomo lo trattenne. Gli disse qualcosa e lo costrinse a quietarsi. Rimasero là, a guardare.
Trehearne uccise uno dei segugi e ne azzoppò un altro con il suo bastone di cristallo. Gli altri sei tumultuavano intorno a lui, un mobile groviglio di corpi che balzavano e saltavano, avventandosi con i bianchi coltelli dei denti. Il sangue cominciò a scorrere sul corpo di Trehearne. Colpì e colpì ancora e chiamò aiuto invocando l’uomo e la donna che contemplavano la scena con aria ottusa.
Non si mossero. Il ragazzo tentò di correre verso di lui, ma l’uomo lo acciuffò. Trehearne emise un suono rauco e lasciò cadere il ramo. Uno dei mostri lo aveva avvinghiato a un polso. Il peso dell’animale lo fece cadere sulle ginocchia e comprese che era la fine, l’ultimo dei suoi viaggi tra le stelle. Si liberò dalla presa delle robuste mascelle serrate sulla sua carne e scagliò il mostro come una catapulta sul muso dei suoi compagni e poi non poté dominare la situazione più a lungo e la muta si strinse intorno a lui.
Il ragazzo era sgusciato nell’ombra della capanna. Ora, improvvisamente, si lanciò avanti e sciolse la catena dal collo dei segugi legati.
Essi attraversarono la radura balzando oltre i monconi dei rami e si avventarono sulla muta di Kurat.