Chiamò qualcuno a gran voce in bretone e una donna venne a preparare la cena. Aveva un viso pesante e stolido. Gettò un’occhiata di traverso a Trehearne e poi si guardò bene dal rivolgergli uno sguardo o una parola. Non appena ebbe servito una cena frugale si affrettò a nascondersi nella stanza attigua.
La vecchia che sferruzzava accanto al camino non era così intimidita. Come se l’età l’avesse messa al di sopra di ogni complicazione, teneva i suoi occhietti brillanti fissi su Trehearne con un misto di ostilità e di interesse.
«Che cosa pensate, ma vieille?» le chiese egli, sorridendo.
Ella rispose in un francese a lui quasi inintelligibile. «Penso, monsieur, che Keregnac è altamente onorato dal diavolo.»
L’uomo le urlò qualcosa in gaelico imponendole di tacere, ma Trehearne scosse il capo.
«Non abbiate paura, grand-mère. Perché dite questo?»
«Ogni tanto egli ci invia i suoi figli e le sue figlie. Mangiano il nostro cibo, prendono a prestito i nostri cavalli, e ci pagano bene. Oh molto bene! Non avremmo da vivere se non fosse per loro.» La sua cuffia bianca si agitò significativamente. «Ma è pur sempre denaro del diavolo!»
Trehearne rise. «E io sembro figlio del diavolo?»
«Voi siete sangue del suo sangue.»
Trehearne si chinò per avvicinarlesi di più e disse: «Un tempo la mia famiglia viveva qui. Si chiamavano Cahusac.»
«Cahusac» ripeté la vecchia lentamente, e gli aghi tintinnanti si arrestarono tra le due dita nodose. «Eh, fu molto tempo fa, e Keregnac ha dimenticato i Cahusac. Furono cacciati…»
«Perché?»
«Avevano una figlia unica, che sposò uno di quei bei figli del Malanno…»
Tacque e lo guardò, come rinsavita. «Ma dimenticate: la mia vecchia lingua non ha ancora imparato la prudenza.»
Trehearne s’inginocchiò accanto a lei, così da poterne scorgere più distintamente il viso. Il cuore gli martellava. «No, no, grand-mère! Non interrompetevi: è per sentire queste cose che sono venuto dall’America. Questa figlia dei Cahusac aveva un figlio?»
«Sì, e gli abitanti del villaggio l’avrebbero voluta lapidare a morte, lei e il bambino. Ma lei lo venne a sapere e fuggì.» La vecchia si drizzò; i suoi occhi erano smorti e cupi.
«Noi prendiamo il loro denaro e questo è un peccato abbastanza grave. E io ho parlato troppo e non dirò altro.»
«No, vi prego!» disse Trehearne. «Chi sono questi stranieri, questi Vardda? Dovete saperlo. Dovete dirmelo!»
Ma la vecchia sedeva, simile a un’immagine intagliata in un legno scuro, il capo chino sulla lana chiara sparsa nel suo grembo. Trehearne si alzò, dominando l’impulso di scuoterla fino a farla parlare e poi uscì. Percorse il breve tratto che lo separava dalla fine della viuzza fangosa e si sporse a contemplare la landa immota e desolata sotto le stelle. Rimase a lungo assorto quel luogo a fissare la brughiera deserta con gli occhi socchiusi.
In quella desolazione, le landes, Shairn se n’era andata con Kerrel. Perché, a quale scopo, non riusciva a immaginare non più di quanto potesse indovinare la soluzione degli altri enigmi, e non sapeva far di meglio che interrogare la sua ospite. Il silenzio si faceva beffe di lui, saturo di segreti.
Egli aveva fatto qualche progresso. Aveva ritrovato le tracce della sua famiglia a Keregnac e ora sapeva le ragioni della loro partenza. Un ibrido Vardda strappato dalla morte che gli si preparava per mano di adirati campagnoli: una storia romantica, ma ancora misteriosa. La soluzione all’enigma della sua nascita andava ricercata più lontano.
Quanto, non poteva prevedere.
All’alba pagò l’autista, saldò il conto con il suo ospite, montò sul cavallo pronto per lui e si lanciò nella brughiera. Non aveva idea su che direzione prendere. In ogni modo la landa non poteva avere un’estensione illimitata e se avesse insistito nelle sue ricerche era quasi certo che avrebbe trovato quanto cercava. Se Kerrel e Shairn e altri figli e figlie del diavolo usavano venire nelle landes, dovevano avere un rifugio.
Ma cavalcò tutto quel giorno tra paludi e pietraie, tra ginestre, rovi e alberelli stenti, senza vedere una casa o un gregge solitario e neppure una lontana nuvola di fumo che indicasse l’esistenza di una dimora umana. Solo qua e là un picco solitario si levava contro il cielo basso come un druido a sentinella.
Calava il crepuscolo. Il vento soffiava e cominciò a piovere, una pioggerella penetrante che prometteva di continuare tutta la notte. E la landa ancora si stendeva tutt’attorno a lui, informe, senza segni di speranza o di conforto.
Non c’era altro da fare che andare avanti. Lasciò che il cavallo procedesse a suo capriccio, curvo sulla sella, inzuppato d’acqua, affamato come un lupo, disgustato del mondo intero.
Con lo svanire della luce il suo umore divenne più nero. Il cavallo avanzava faticosamente in un buio pesto. La landa presentava ora notevoli ondulazioni e Trehearne se ne accorgeva dal sobbalzare della sella quando il suo cavallo precipitava giù per una china per poi arrancare su per il versante opposto, scivolando e inciampando tra il fango e le ginestre grondanti di pioggia. Fu dalla cresta di una di queste basse ondulazioni del terreno che egli scorse un barlume di luce, davanti a lui a sinistra.
Disse forte: «Sarà la capanna di un contadino» e non si sarebbe permesso di sperare di più. Ma spronò il cavallo con impazienza. Anche così, gli sembrò passassero delle ore prima di raggiungere quel lume.
Dovette avvicinarsi alla costruzione per poter rendersi conto della sua grandezza e della sua forma nel buio fitto. Poi tirò le redini, del tutto deluso. Non era la capanna di un contadino, né un castello, né una comune casa di abitazione. Vide una diroccata mole cilindrica di pietra che doveva essere stata un tempo una rozza torre merlata, e ai suoi piedi rovine di mura e di rimesse. Era molto antica, pensò Trehearne; probabilmente risaliva al Medioevo e forse si trattava dell’antica fortezza di un brigante di nobili natali.
Una rovina sperduta in un deserto. Eppure era abitata. La gialla luce di una lanterna pioveva dalle feritoie del torrione. Nel cortile vi erano dei cavalli. Si udiva un suono di voci, e nelle cadenti rimesse si vedevano luci, c’era un brusio, un fervore di attività. Trehearne stette fermo per un po’ tentando, senza riuscirvi, di dare un significato qualunque a ciò che vedeva. Poi scese da cavallo e lasciò che l’animale sfinito raggiungesse i suoi compagni, mentre egli si dirigeva verso le rimesse dove vi erano uomini al lavoro. Aveva in tasca una piccola pistola automatica. Non aveva paura, ma era contento di averla con sé. Vi era una sconcertante singolarità in quel luogo, nel suo aspetto e nella ragione, qualunque essa fosse, che ne giustificava lo stato attuale. Le rimesse di legno non erano in rovina come sembrava a prima vista. In realtà, a Trehearne balenò la bizzarra idea che fossero state costruite in quel modo di proposito. Erano stipate di ceste di vimini e di casse da imballaggio, non di legno, notò Trehearne, ma leggere, di solido materiale plastico, segnate con simboli sconosciuti. Altre casse venivano portate su attraverso fenditure nella pietra che immettevano evidentemente nei locali sottostanti il torrione. Gli uomini che se le passavano tra alte risa e un sonoro vociare, erano per lo più giovani e tutti di ceppo vardda, avvolti in abiti strani quanto la loro lingua. Trehearne non riusciva a pensare ad alcun costume nazionale costituito da quel tipo di tunica stretta sopra ampi pantaloni, né da quel particolare tipo di sandali. Un rapido brivido lo percorse ed egli si fermò proprio all’orlo della pozza di luce della lanterna. Gli uomini non l’avevano ancora visto e improvvisamente non fu più sicuro di desiderare che lo vedessero. La singolarità del luogo cominciò a colpirlo non più nel suo insieme, ma in piccoli particolari casuali che lo rendevano reale ed ebbe paura, razionalmente, non fisicamente. Dalla pioggia e dall’ombra, accanto a lui, uscì una voce. «Dovete essere Trehearne.»