Выбрать главу

Lo seguirono. Era come se la lancia sprofondasse posata su quel guanciale di luce. Si trovavano al di sopra di una superficie planetaria dilaniata e torturata dall’ultima fase diastrofica. Torreggiante da una paurosa altezza, incombeva un possente e accidentato sperone roccioso. Ai suoi piedi si apriva un baratro e, al di là del baratro si stendeva un desolato paesaggio sconvolto, nebuloso, sotto la grande lama di luce della Galassia.

Discesero lungo la parete del titanico sperone. Guardando entro l’abisso, alla sua base, Trehearne cominciò a sentirsi inquieto.

«Non vi sono astronavi qui» osservò. «Il contatore deve aver registrato qualche ultima radiazione proveniente dal fondo di questo baratro.»

Quorn assentì. Ma Edri disse: «No, continua.» Trehearne lo sentiva tremare.

Continuarono a discendere lungo la gigantesca parete minacciosa. D’un tratto Trehearne indicò qualcosa: «Non c’è un ripiano roccioso laggiù?»

Il nitido fascio di luce del faro rivelò un pianoro roccioso che si sporgeva nel vuoto a metà della parete.

Quorn volse la lancia in quella direzione. Qualcosa su quel ripiano balenò lievemente alla luce. Quorn fece scendere la lancia a una velocità vertiginosa. I particolari si rivelarono nitidi: la roccia scheggiata, il magma antico, le bolle di aria gelata nelle cavità. E tra esse una forma ovoidale, simmetrica, liscia, che mandava un lieve riflesso metallico.

Edri disse il nome di Orthis come se stesse pregando.

20

Quorn era atterrato sul ripiano roccioso. Si erano rapidamente infilati gli scafandri. Avevano dimenticato di essere quasi in fin di vita.

Muovendosi goffamente in quella pesante tenuta, incespicando nelle rocce frastagliate, scivolando sugli strati d’aria gelata, si aprirono un varco verso la meta per giungere alla quale avevano attraversato la Galassia e messo in gioco le loro stesse vite. Sopra di loro lo spaventoso sperone si ergeva nel vuoto. Sotto di loro l’abisso precipitava nel morto cuore di un pianeta. Alle loro spalle si sentiva un’immane desolazione e nel cielo nero il possente orlo della Galassia ardeva come una spada infuocata.

Trehearne avvertiva profondamente il silenzio. Non era mai stato prima in un pianeta senz’aria. S’accorse di urtare col suo stivale metallico contro un frammento di roccia, ma non vi fu alcun rumore. Tutto quel che poteva udire era il roco respiro di Quorn e di Edri trasmessogli dal microfono del casco.

La nave di Orthis si stagliava minacciosa di fronte a loro, senza luci, senza vita. Cullata dalle ceneri della distruzione. Aveva un’aria di paziente attesa. Giaceva là da mille anni, non toccata dal tempo o dalla ruggine, seppellita nel silenzio della notte interminabile, eterna come gli astri spenti che vagano per sempre in uno spazio incorruttibile. Pareva che potesse attendere fino alla fine dell’Universo, alimentando la sua speranza. Un senso di timore reverenziale e con esso un senso di paura invasero Trehearne.

Trovarono la porta di sicurezza. Era spalancata, i battenti ancora lucidi. Non ci poteva essere corrosione qui, dove ogni atomo d’aria e di umidità si congelava nel freddo purificante. La luce della torcia di Trehearne gli rivelò sul pavimento della camera di compressione le orme di uno stivale d’uomo. Avrebbero potuto esservi state impresse solo ieri.

I tre uomini si fermarono fuori da quella porta aperta. Si guardarono l’un l’altro attraverso le visiere di glassite dei caschi e i loro volti erano strani. Poi Trehearne si scostò, e così fece anche Quorn. Edri chinò il capo. Avanzò verso la porta. Lentamente, senza rumore, salì sull’astronave di Orthis.

Gli altri lo seguirono da vicino. Le loro torce fendevano con nitidi fasci di luce l’oscurità priva d’aria. Attraversarono la camera di compressione raggiungendo un corridoio che portava a prua e a poppa. Vi regnava un’assoluta quiete. Il pesante contatto degli stivali con il ponte metallico non produceva il più lieve rumore. Era come camminare in un incubo, e l’assenza di vita a bordo dell’astronave, la nera, inerte, immobile assenza di vita era più opprimente della desolazione che la circondava. Le rocce e i dirupi non si erano mai mossi, non erano stati alterati da mani d’uomini. Nessun pensiero o speranza li aveva mai penetrati. La pelle di Trehearne era percorsa da piccoli brividi di freddo. Poteva udire il battito del sangue nelle orecchie, il rimbombo sordo del suo cuore. Si muoveva con gli altri, figure perdute in una tomba, e trasaliva come un fanciullo a ogni forma che la luce rivelava.

L’intera poppa era adibita a laboratorio. Gran parte della delicata attrezzatura era in pezzi o per le vibrazioni dovute alla velocità o per le conseguenze di un brusco atterraggio. Trehearne non capiva nulla della massa sconvolta di metallo e di cristallo in frantumi, ma Quorn disse: «Stava studiando le radiazioni interstellari. Di gran parte di questo materiale non capisco l’uso, ma fin qui ci arrivo.»

Una sezione del laboratorio conteneva una complicata massa di serpentine e di prismi e un intricato complesso di riflettori sistemati intorno a quello che aveva dovuto essere un gran tubo centrale. Al punto focale del meccanismo vi era una piccola piattaforma fissata con cinghie. Lungo la parete erano ammucchiate delle gabbie per animali da esperimento. Qualcuno di essi c’era ancora. Erano morti, la rapida morte provocata dal freddo e dalla mancanza d’aria, ma i loro corpi erano ancora intatti. Ciò significava che erano sopravvissuti al viaggio. L’ultravelocità del volo interstellare non aveva avuto alcun effetto su di loro.

Gli uomini rovistarono per qualche tempo tra i relitti, poi Edri disse: «Non c’è nulla da fare per noi qui. Inutile tentare di ricostruire il meccanismo. Non vi riuscirono in tutti gli anni in cui la nave ancora in piena efficienza fu tenuta sotto sequestro. Orthis stesso disegnò e costruì la maggior parte degli strumenti.»

Trehearne diede ancora un’occhiata ai piccoli corpi villosi che giacevano nelle gabbie come addormentati. In un certo senso la loro esistenza rendeva doppiamente crudele il tradimento perpetrato contro Orthis: persino le bestie avevano ottenuto la libertà degli spazi stellari che era stata negata a intere generazioni di tante razze di altri mondi.

Ritornarono nel corridoio, lo ripercorsero e si spinsero oltre. Trovarono le cabine, piccole e sobrie, di un nitore monastico. Le coperte delle cuccette erano gualcite e sul cuscino era rimasta l’impronta là dove si era posata la testa di un uomo. Trehearne rabbrividì, poi passarono oltre sul ponte.

Trehearne si rese conto allora di che atto di eroismo fosse stato lanciare questa antiquata astronave fino ai confini della Galassia e oltre. Gli strumenti erano così pochi e così rudimentali. Il sistema di comando così semplificato. Vi era un sistema di bloccaggio, un pilota automatico primitivo che poteva mantenere la rotta senza l’intervento dell’uomo e pensò che soltanto questo aveva reso possibile il solitario volo di Orthis. Ma la scienza astronautica aveva fatto grandi progressi da allora.

La voce di Quorn, in un sussurro, come di chi parli in chiesa, lo raggiunse attraverso il microfono del casco. «È incredibile. Questa astronave non fu neppure costruita per volare, era un vero e proprio laboratorio spaziale. È strano il fatto stesso che sia sopravvissuta.»

Edri trasse un lungo respiro in cui parve tremare un singhiozzo. «Non abbiamo ancora trovato quanto cerchiamo. Pensate che non sia qui? Pensate che dopo tutto…» Non finì la frase.

Ricominciarono le ricerche. Fu Trehearne a trovare la porta nella paratia di poppa della cabina di comando. La spalancò e guardò dentro. Il raggio della sua torcia perforò nettamente l’antichissima oscurità.

Involontariamente Trehearne gridò.

Quorn e Edri accorsero. Era aggrappato alla parete. Sudore freddo gli colava dal viso e gli occhi erano selvaggiamente dilatati. Guardarono al di là, sopra la sua spalla.