La cabina era piccola. Era adattata a biblioteca, stipata di casse metalliche contenenti libri, alcuni dei quali erano volumi in microstampa di tipo antico, alcuni altri grossi taccuini sgualciti. Il fascio di luce tagliente come una lama di coltello li delineava tra luce intensa e ombra nera. C’era una gran tavolo, fissato al piancito e sul tavolo una scatola di metallo. Su di essa posava la mano di un uomo, con le dita aperte, lievemente incurvate sul bordo della scatola, in un’espressione di protezione e di possesso insieme, quasi si trattasse di qualcosa di caro e di prezioso.
«Oh, Dio» bisbigliò Quorn. «Guardatelo…»
Sedeva su una sedia di metallo dietro il tavolo. La testa era alzata, rivolta verso l’oblò della parete esterna attraverso cui si scorgeva il cielo buio solcato dai possenti fuochi della Galassia. La luce cruda ne rivelava chiaramente la figura. Era un vecchio. Gli anni della sua vita erano stati molti e duri. Avevano inciso il suo volto come nel ferro, scavandone profonde rughe, rilevandone precisi i lineamenti, cancellando ogni traccia di gioventù e di speranza e del riso che forse un giorno l’aveva illuminato, per forgiare una maschera di irata amarezza, e di rimprovero e, infine, di disperazione. Pareva a Trehearne di poter legger la storia di tutta una vita in quel viso fissato per sempre nel momento della morte, quando certamente quell’uomo stava gridando al dio che aveva adorato, qualunque esso fosse, una accorata domanda: Perché?
Edri si mise improvvisamente a ridere. «Orthis. È Orthis. Ha aspettato che venissimo…»
Quorn alzò una mano avvolta nel pesante guanto metallico e batté sul casco di Edri con tanta forza che Trehearne udì il tintinnio nel suo microfono. «Taci. Dannazione, Edri, taci.» Edri smise di ridere. Dopo un momento disse: «Per un attimo ho pensato…»
Trehearne mormorò. «Anch’io.»
In quell’assoluto freddo privo d’aria la morte non aveva i segni della decadenza e della trasformazione. Ma non si trattava soltanto di questa mancanza di corruzione fisica. Il fuoco era arso così profondo in quell’uomo che perfino la morte non ne aveva cancellato le tracce. Quando il fascio di luce li investì i suoi occhi aperti parvero ardere di inestinguibili braci.
A lungo i tre uomini ristettero, immobili, sulla soglia, l’uno accanto all’altro. Trehearne disse: «Desiderava, penso, che chiunque lo trovasse guardasse entro quella scatola, là sotto la sua mano.» Il lavoro di tutta la vita di Orthis, il futuro della Galassia contenuti in una piccola scatola. Lo sapevano. Ma ancora non si sentivano pronti a entrare e a togliere dalla mano di Orthis l’oggetto che vi aveva tenuto tanto a lungo. Ed era strano, pensava Trehearne, che in quel momento in cui le loro emozioni avrebbero dovuto toccare l’apice, in cui avrebbero dovuto sentire con più intensità il peso di tutti i secoli di sacrificio e di lotta che li avevano portati in quel luogo e il significato che tutto ciò avrebbe avuto, fossero troppo stanchi per sentire veramente qualcosa; solo un’ombra di rispettoso timore e un’istintiva riluttanza ad accostarsi al morto. Trehearne desiderò andarsene da quella funerea nave. Lo desiderò infine con tanta intensità che entrò e cercò di allontanare la mano di Orthis dalla scatola. Il braccio era rigido e gelato come una sbarra d’acciaio e rinunciò a muoverlo, cercando invece di trarre cautamente la scatola da sotto le dita diacce, con una gran paura che si rompessero.
Gli altri gli si erano avvicinati lentamente. La scatola non era chiusa. Sollevò il coperchio e la torcia rivelò un taccuino legato in tela. Sopra vi era un foglio sciolto vergato da alcune linee di una calligrafia fermissima. Edri lo afferrò, con un goffo gesto delle mani coperte dai guanti metallici e, tenendolo in luce, lesse con una strana voce atona: «"Mi sono aggrappato alla vita fin tanto da…".»
Edri si interruppe e ricominciò, e Trehearne pensò che Orthis ascoltasse.
«"Mi sono aggrappato alla vita fin tanto da scrivere per la prima volta tutta la mia formula, completa e semplificata, così da poter essere compresa e applicata. In essa è la libertà delle stelle. Io, il primo dei nati dalle stelle, fui cacciato dall’avidità e dalle paure dei nati dai pianeti. Ma non sarà sempre così.»
’"Io non vedrò quanto accadrà. La mia astronave è ormai giunta troppo lontano, mi è rimasto poco combustibile e sono vecchio. Così ho sistemato la chiusura ermetica in modo che si apra tra pochi minuti. Una morte veloce è assai migliore di una lenta, mentre le pompe per l’aria compressa s’arresteranno. Dopo ciò, aspetterò. Quanto ho sognato non sarà dimenticato. Un giorno verranno altri che crederanno come io ho creduto, che le stelle sono per tutti gli uomini.’"
Edri tacque. Quorn disse: «Ha contemplato la Galassia per mille anni, aspettando.»
Trehearne si sforzò di muoversi per rompere l’incanto. «Se non ci affrettiamo, il nostro viaggio non gli servirà a nulla.»
Si chinò ad afferrare la scatola, la chiuse e la mise nelle mani di Edri.
«Su, Edri, mi senti? Su! Non abbiamo molto tempo a nostra disposizione.»
Edri guardò la scatola, poi Orthis che aveva avuto per sé mille anni di tempo. Poi si volse e uscì, e Quorn lo seguì, e così fece Trehearne, giù per il buio corridoio e fuori dalla nave silente. Trehearne alzò lo sguardo all’ardente fiume delle stelle e pensò a che sogno possente il primo degli Stellari aveva portato con sé nella lunga notte.
Un improvviso panico, l’ansia di fare in fretta lo invasero. Orthis aveva affidato loro il messaggio con le sue stesse mani. Se proprio ora per essere troppo lenti o troppo sfiniti ora, alla fase conclusiva non fossero riusciti a compiere quel che bisognava compiere… Cominciò a correre verso la lancia, dando una voce agli altri, incitandoli, esortandoli ad affrettarsi finché essi pure si diedero a correre, barcollando tra le sporgenze della roccia. Li spinse dentro, come impazzito, parlando insistentemente della necessità di affrettarsi. Quorn eseguì la manovra di partenza: la lancia si librò dal ripiano roccioso. Non volevano essere vicino alla nave di Orthis quando avessero fatto quanto intendevano fare ora. Quorn illuminò con il faro quel mondo morto in cerca di un luogo d’atterraggio.
«In fretta» ripeteva Trehearne. «Bisogna fare in fretta!»
Quorn imprecò con violenza contro di lui. «Faccio tutto il possibile. Tacete e ascoltate. Tutti e due tenete indosso gli scafandri e tenete pronti i caschi.»
Trehearne smise di parlare. Si sedette, le mani strette tra le ginocchia, tremando tutto. Edri era curvo sul taccuino contenuto nella scatola metallica, intento a leggere.
«C’è tutto, qui» disse. La sua voce era rauca dalla stanchezza, carica dell’emozione che egli era troppo intontito per avvertire. «Le equazioni, le formule, le istruzioni per costruire gli strumenti, le istruzioni per usarli. Io non li capisco, ma altri vi riusciranno.» Guardò Trehearne con gli occhi cerchiati di rosso. «Orthis fa precedere una breve introduzione. Egli fu il primo degli stellari. La mutazione si verificò spontaneamente durante quel primo lungo viaggio. Le costanti vibrazioni della velocità, non della velocità che ci è familiare, ora, ma di una velocità superiore comunque a quella a cui il corpo umano era assuefatto, una velocità assai vicina a quella della luce, e gli effetti prodotti dalle radiazioni interstellari sulla cellula: ecco che cosa la produsse. Orthis fu il prodotto finale di quattro generazioni vissute in queste condizioni. Fu il primo tentativo della natura di creare l’uomo galattico, di adattare il corpo umano alle nuove esigenze. E il suo grande lavoro consistette nel ridurre quel lungo processo naturale a una formula applicabile che potesse compiere il mutamento in una sola generazione invece che in quattro. Dio, sono stanco di ripetere tutte queste cose come un pappagallo con le parole di Orthis. Quel che si deve fare è, naturalmente, alterare il corredo genico dei cromosomi di entrambi i genitori prima del concepimento e… comunque, tutto è qui.»