Era tutto concentrato su un pensiero.
Stava cercando di ricordarsi se qualche dio gli dovesse dei favori.
In realtà gli dei erano perplessi davanti a tutto ciò al pari dei maghi, ma non potevano farci niente e in ogni caso erano impegnati in una battaglia vecchia di eoni con i Giganti del Ghiaccio, che si erano rifiutati di restituire il tagliaerba.
Tuttavia, un indizio di quanto era accaduto era dato dal fatto che Scuotivento, la cui vita era giunta a una svolta interessante quando aveva quindici anni, scoprisse d’improvviso di non essere morto, dopo tutto, ma di penzolare a testa in giù da un pino.
Scese con facilità lasciandosi cadere da un ramo all’altro, fino ad atterrare di testa su un mucchio di aghi di pino, dove rimase steso respirando a fatica e desiderando di essere stato una persona migliore.
Un nesso perfettamente logico doveva pur esserci da qualche parte, lo sapeva. Un attimo prima uno è sul punto di morire, essendo precipitato giù dal bordo del mondo, e un attimo dopo si ritrova a testa in giù da un albero.
Come gli succedeva sempre in momenti come quello, nella sua mente sorse l’Incantesimo.
I suoi mentori avevano ritenuto che Scuotivento fosse un mago naturale proprio come i pesci sono per natura dei montanari. Probabilmente lui sarebbe stato buttato fuori dall’Università Invisibile comunque (non riusciva a ricordare gli incantesimi e fumare lo faceva star male) ma il vero guaio era stato causato da quella stupida faccenda d’introdursi di nascosto nella stanza dov’era incatenato l’Octavo e di averlo aperto.
E, guaio ancora peggiore, nessuno era riuscito a capacitarsi perché tutti i chiavistelli si fossero temporaneamente aperti.
L’Incantesimo non era un inquilino esigente. Se ne stava semplicemente seduto lì come un vecchio rospo in fondo a uno stagno. Ma ogni volta che Scuotivento si sentiva davvero stanco o spaventato, ecco che quello tentava di farsi pronunciare. Nessuno sapeva che cosa sarebbe accaduto se uno degli Otto Grandi Incantesimi si fosse pronunciato da sé, ma tutti convenivano che il luogo migliore dal quale osservare gli effetti sarebbe stato l’universo più vicino.
Era strano avere un pensiero simile, sdraiato su un mucchio di aghi di pino subito dopo essere precipitato dal bordo del mondo, ma Scuotivento sentiva che l’incantesimo voleva tenerlo in vita.
"Mi sta bene" pensò.
Si mise a sedere e guardò gli alberi. Scuotivento era un mago cittadino. Anche se informato delle differenze esistenti tra i vari tipi di alberi, grazie alle quali essi erano riconoscibili per i loro cari, la sola cosa che lui sapeva per certo era che l’estremità priva di foglie s’infilava nel terreno. Ce n’erano troppi, di alberi, disposti senza alcun senso dell’ordine. Quel luogo non era stato spazzato da secoli.
Ricordò di avere sentito che uno può dire dove si trova osservando da quale lato dell’albero cresce il muschio. Quelli avevano muschio dappertutto, nonché escrescenze e vecchi rami stenti. Se gli alberi fossero persone, quelli avrebbero occupato delle sedie a dondolo.
Scuotivento sferrò un calcio alla pianta più vicina. Con mira infallibile quella lasciò cadere su di lui una ghianda. — Ahi! — disse lui. — Ti sta bene — rispose l’albero con voce simile allo scricchiolio di una vecchissima porta che si apre.
Seguì un lungo silenzio.
Poi Scuotivento domandò: — Hai detto questo?
— Sì.
— E anche questo?
— Sì.
— Oh! — Rimase per un po’ a pensare, poi azzardò: — Suppongo che non conosci la via per uscire dalla foresta, possibilmente? Per caso?
— No. Non mi muovo molto — rispose l’albero.
— Una vita piuttosto noiosa, immagino.
— Non saprei. Non sono mai stato diverso — ribatté l’albero.
Scuotivento lo scrutò da vicino. Gli sembrò più o meno uguale a ogni altro albero che aveva visto.
— Sei magico? — gli chiese.
— Non l’ha mai detto nessuno. Suppongo di sì.
Scuotivento pensò: "È impossibile che io stia parlando con un albero. Se parlassi con un albero sarei matto, e io non sono matto, quindi gli alberi non possono parlare".
— Addio — disse in tono deciso.
— Ehi, non andartene — cominciò l’albero e poi si rese conto dell’inutilità del tutto. Osservò l’altro allontanarsi barcollando tra i cespugli e poi si dedicò a sentire il calore del sole sulle sue foglie, il risucchio e il gorgoglio dell’acqua nelle radici e il flusso e riflusso della linfa in risposta alla naturale forza di attrazione del sole e della luna. "Noioso" pensò. "Che cosa strana da dire. Gli alberi possono annoiarsi, certo, i coleotteri lo fanno tutto il tempo, ma non credo fosse questo ciò che lui voleva dire. E: si può in realtà essere diverso?"
In effetti, Scuotivento non riparlò con quel particolare albero, ma dalla loro breve conversazione ha origine la base della prima religione arborea la quale, col tempo, si è propagata per le foreste del mondo. Il suo dogma di fede era il seguente: un albero, che fosse un buon albero e conducesse una vita pulita, decorosa e onesta, poteva contare sulla certezza di una vita futura dopo la morte. Se proprio era molto buono, alla fine si sarebbe reincarnato come cinquemila rotoli di carta igienica.
Qualche chilometro più lontano anche Duefiori si riaveva dalla sorpresa di ritrovarsi sul Disco, seduto sullo scafo del Potente Viaggiatore. Che pian piano affondava gorgogliando nelle acque scure di un grande lago, circondato da alberi.
Stranamente, l’ometto non era particolarmente inquieto. Era un turista, il primo della specie che doveva svilupparsi sul Disco e per la sua esistenza era fondamentale la sua granitica convinzione che non potesse accadergli niente di male perché lui non era coinvolto. Credeva pure fermamente che chiunque poteva comprendere ciò che diceva, purché lui avesse parlato forte e adagio; che in sostanza le persone erano degne di fiducia e che tra gli uomini di buona volontà tutto poteva aggiustarsi se agivano con raziocinio.
Con tali premesse, la sua possibilità di sopravvivenza valeva, diciamo, meno di una cicca. Ma, con stupore di Scuotivento, sembrava che la cosa funzionasse e la totale noncuranza dell’amico per ogni forma di pericolo scoraggiava talmente quest’ultimo da indurlo a rinunciare e andarsene.
La semplice prospettiva di annegare non aveva pertanto nessuna probabilità d’intimorirlo. Duefiori era certissimo che una società bene organizzata non avrebbe lasciato che la gente se ne andasse in giro per finire annegata.
Tuttavia, lo preoccupava un po’ che fine avesse fatto il suo Bagaglio. Ma si consolava sapendo che era fatto del legno sapiente del pero e che avrebbe dovuto essere abbastanza intelligente per badare a se stesso…
In un’altra parte della foresta un giovane sciamano era sottoposto a una prova essenziale del suo addestramento. Aveva mangiato il sacro fungo velenoso, aveva fumato il santo rizoma, aveva attentamente ridotto in polvere e inserito nei vari orifizi il mistico fungo e adesso, seduto a gambe incrociate sotto un pino, si stava concentrando per stabilire un contatto con i segreti strani e meravigliosi nel cuore dell’Essere. Ma soprattutto per impedire che la cima della testa gli si svitasse e volasse via.
Azzurri triangoli quadrangolari gli ruotavano davanti agli occhi. Di tanto in tanto sorrideva a niente con l’aria di saperla lunga e pronunciava suoni come "Wow" e "Urgh".
Nell’aria si produsse un movimento e quello che più tardi lui descrisse "come una sorta di esplosione soltanto che è avvenuto all’indietro, sapete?". E a un tratto, là dove c’era stato solo niente, c’era una grossa cassa di legno malridotta.
Che atterrò pesantemente sul terriccio, allungò innumerevoli gambette e si girò gravemente a guardare lo sciamano. Cioè, non aveva una faccia ma, anche attraverso la nebulosità micologica, il giovane sapeva con orrore che l’oggetto lo guardava. E non aveva nemmeno un aspetto rassicurante. Era stupefacente come potessero sembrare ostili il buco di una serratura e un paio di fori.