I guerrieri si chinarono attenti, ansiosi di udire la risposta.
L’ospite rifletté a lungo e poi dichiarò: — Acqua calda, un buon dentista e carta igienica morbida.
Nella fucina fiammeggiava la luce dell’ottarino. Nudo fino alla cintola, Galder Weatherwax, il viso riparato da una maschera di vetro fumé, socchiuse gli occhi contro il vivo chiarore, e diede un colpo di martello con precisione chirurgica. La magia sibilò e si contorse nelle tenaglie, ma lui non smise di lavorarla fino a forgiarla in una linea di fuoco.
Un’asse del pavimento scricchiolò. Galder aveva impiegato parecchie ore ad accordare quelle assi, precauzione sempre saggia con un assistente ambizioso che camminava come un gatto.
Re bemolle. Voleva dire che quello si trovava a destra della porta.
— Ah, Trymon — disse senza voltarsi e notò con una certa soddisfazione che il giovane mago alle sue spalle tratteneva appena il fiato. — Hai fatto bene a venire. Chiudi la porta, vuoi?
Trymon, con il viso impassibile, richiuse il pesante battente. Sullo scaffale in alto sopra la sua testa, varie impossibilità imbottigliate guazzavano nella salamoia e lo osservavano con interesse.
Come tutti i laboratori dei maghi, sembrava che in quel luogo un impagliatore avesse lasciato cadere il suo materiale in una fonderia, fosse poi venuto alle mani con un soffiatore di vetro impazzito e, durante l’operazione, avesse decapitato un coccodrillo che passava di lì (era appeso al soffitto e odorava forte di canfora). C’erano lampade e anelli che Trymon avrebbe avuto gran voglia di strofinare, e specchi che promettevano di ripagare una seconda occhiata. In una gabbia si agitava irrequieto un paio di stivali delle sette leghe. Un’intera biblioteca di vecchi tomi, meno potenti naturalmente dell’Octavo ma sempre gravidi d’incantesimi, scuotevano le loro catene come sentissero su di sé lo sguardo cupido del mago. Che era scosso come mai dal potere che emanava da tutto questo, ma che deplorava al tempo stesso la meschineria di Galder e la sua teatralità.
Per esempio, lui sapeva che il liquido verde che ribolliva misterioso nell’intrico di tubi contorti su uno dei banconi era semplicemente della tintura verde mescolata a sapone, perché glielo aveva confidato uno degli inservienti che lui aveva corrotto con una mancia.
"Un giorno" pensò "tutto questo sparirà. A cominciare dal maledetto alligatore." Gli si sbiancarono le nocche delle dita…
— Allora — incominciò gioviale Galder, mentre appendeva il suo grembiule e si sedeva nella poltrona con i braccioli a zampa di leone e le gambe di anatra. — Mi hai mandato questa noterella.
Trymon alzò le spalle. — Un promemoria. Ho solo fatto notare, mio signore, che tutti gli altri Ordini hanno mandato degli agenti alla Foresta di Skund per riprendere l’incantesimo, mentre tu non hai fatto niente. Senza dubbio ci rivelerai le tue ragioni a tempo debito.
— La tua fede mi confonde — disse Galder.
— Il mago che riprende l’incantesimo farà grande onore a sé e al suo Ordine — ribatté Trymon. — Gli altri si sono serviti di stivali e ogni sorta d’incantesimi. Tu, maestro, che cosa ti proponi di usare?
— Noto forse un accenno di sarcasmo nella tua domanda?
— Assolutamente no, maestro.
— Nemmeno un pochino?
— Nemmeno l’ombra, maestro.
— Bene. Perché non ho intenzione di andare. — Galder si chinò a raccogliere un antico libro. Borbottò un ordine e quello si aprì con uno scricchiolio; un segnalibro simile a una lingua rientrò con un guizzo nella rilegatura.
Il vecchio mago armeggiò vicino al cuscino della poltrona e tirò fuori una piccola borsa da tabacco in pelle e una pipa delle dimensioni di un inceneritore. Con la consumata perizia di un nicotinomane all’ultimo stadio, Galder rotolò tra le mani un tocco di tabacco e caricò la pipa. Uno schiocco delle dita e si accese una fiammella. Il mago inalò a fondo, sospirò di soddisfazione… alzò gli occhi.
— Ancora qui, Trymon?
— Mi hai chiamato tu, maestro — disse Trymon senza scomporsi. Almeno era questo che disse la sua voce. Un lievissimo luccichio in fondo ai suoi occhi grigi diceva invece che lui conservava un elenco di ogni sgarbo, ogni ammiccamento condiscendente, ogni mite rimprovero, ogni occhiata saccente, e che per ciascuno di essi il cervello ancora vivo di Galder avrebbe trascorso un anno immerso in un acido.
— Oh, già. Infatti. Compatisci la stupidità di un vecchio. — Galder sollevò il libro che stava leggendo.
— Io non sono d’accordo con tutto questo correre qua e là — dichiarò. — Pasticciare in giro con i tappeti volanti e simili è di grande effetto, ma a mio giudizio non è vera magia. Ora, prendiamo gli stivali delle sette leghe. Se gli uomini fossero stati destinati a fare quaranta chilometri a ogni passo, sono sicuro che Dio ci avrebbe dato gambe più lunghe… Dove ero rimasto?
— Non saprei. — La voce di Trymon era fredda.
— Ah, sì. Strano che non abbiamo potuto trovare nella Biblioteca niente sulla Piramide di Tsort. Si pensava che ci sarebbe stato qualcosa, no?
— Naturalmente il bibliotecario sarà punito.
Galder lo guardò di sottecchi e replicò: — Niente di drastico. Forse gli toglieremo le banane.
Rimasero un momento a fissarsi.
Galder fu il primo a distogliere gli occhi… fissare Trymon lo metteva a disagio. Lo stesso sconcertante effetto di guardarsi in uno specchio e non vederci nessuno.
— Comunque — continuò — per strano che possa sembrare, ho trovato aiuto altrove. Nella mia modesta libreria, in effetti. Il diario di Skreit Cambiacesto, il fondatore del nostro Ordine. Tu, mio caro giovanotto tanto furbo, lo sai che succede quando muore un mago?
— Tutti gli incantesimi che lui ha imparato a memoria si pronunciano da sé. È una delle prime cose che apprendiamo — rispose Trymon.
— In realtà, questo non vale per gli Otto Grandi Incantesimi originali. A prezzo di uno studio approfondito Skreit aveva saputo che un Grande Incantesimo si rifugia semplicemente nella più vicina mente aperta e pronta a riceverlo. Trascina qui quel grande specchio laggiù, vuoi?
Galder si alzò e si avvicinò strascicando i piedi alla fornace ormai fredda. Tuttavia ancora ondeggiava un filo di magia, presente e non presente a un tempo, simile a una fessura praticata in un altro universo pieno di rovente luce azzurra. Il mago la prese senza difficoltà, tolse un arco da una rastrelliera, pronunciò la parola del potere e osservò soddisfatto la magia afferrare ie due estremità dell’arco e tenderle finché il legno scricchiolò. Poi scelse una freccia.
Trymon aveva trascinato in mezzo alla stanza un pesante specchio a figura intera. "Quando sarò a capo dell’Ordine" si disse "certo non me ne andrò in giro ciabattando."
Come si è già detto. Trymon era convinto che nuova linfa avrebbe potuto fare molto, se solo si fosse rimosso il legno morto. Ma, per il momento, lo interessava davvero vedere ciò che avrebbe fatto il vecchio pazzo.
Sarebbe stato soddisfatto se avesse saputo che tanto Galder che Skreit Cambiacesto si sbagliavano.
Galder passò e ripassò davanti allo specchio, che si appannò e poi, ridivenuto limpido, mostrò una veduta aerea della Foresta di Skund. Il mago la fissò attentamente, tenendo l’arco con la freccia puntata al soffitto. Borbottò qualche parola come "calcola la velocità del vento a, diciamo, tre nodi" e "tieni conto della temperatura", poi scoccò la freccia con un movimento alquanto goffo.
Secondo ie leggi di azione e reazione, la freccia avrebbe dovuto cadere a terra pochi centimetri più in là. Ma nessuno le seguiva.
La freccia scomparve con un suono impossibile a descriversi. Ma che, per amore della precisione, potrebbe paragonarsi a uno "spang!" più tre giorni di lavoro intenso in un qualsiasi laboratorio radiofonico decentemente attrezzato.