Il lago era calmissimo nell’eterno tramonto grigio e rosso. Dirk guardò le acque, spesse delle incrostazioni di funghi e si ricordò dei canali di Braque. Allora lei aveva bisogno di lui, pensò. Forse non era come lui aveva sperato, ma c’era pur qualcosa che le poteva dare. Si aggrappò a quel pensiero; lui voleva dare, lui aveva delle cose da dare. «Qualsiasi cosa», disse alzandosi. «C’è qualcosa che non capisco, Gwen. Troppe cose. Continuo a pensare che metà della conversazione dell’altro giorno è ormai passata sul mio cervello, eppure non so ancora quale sia la domanda giusta da farsi. Ma ci posso provare. Ho bisogno di te, immagino. Ho bisogno di te, in un modo o nell’altro».
«Aspetterai?».
Starò ad ascoltare, quando verrà il tempo».
«Allora sono contenta che tu sia venuto», disse lei. «Avevo bisogno che venisse qualcuno, qualcuno da fuori. Sei arrivato proprio in tempo. Una bella fortuna».
Che strano, pensò lui, una bella fortuna dopo che lei mi ha fatto chiamare. Ma non disse niente. «E adesso?».
«Adesso, se ti va, possiamo visitare la foresta. Del resto siamo venuti qui proprio per questo».
Raccolsero i loro scooter e si allontanarono dal lago silenzioso, avviandosi verso la spessa foresta in attesa. Non si potevano seguire dei sentieri, ma il sottobosco era rado e si camminava facilmente, come se ci fossero parecchie piste. Dirk era calmo, studiava i boschi che lo circondavano, con le spalle curve e le mani sprofondate nelle tasche. Gwen fu l’unica a parlare, per quelle poche cose che c’erano da dire. Parlava con voce bassa e riverente, come il sussurro di un bambino in una grande chiesa. Ma per lo più si limitava ad indicare le cose perché lui le osservasse.
Gli alberi che circondavano il lago erano tutti vecchi amici che Dirk aveva già visto migliaia di volte. Perché questa era la cosiddetta foresta di casa, i boschi che gli uomini si erano portati dietro da sole a sole e che avevano piantato su tutti i mondi in cui avessero posato piede. Quegli alberi avevano radici su Vecchia Terra, la foresta nostrana, ma non era tutta terrestre. Su tutti i pianeti nuovi l’umanità trovava dei nuovi favoriti, piante ed alberi che subito diventavano parte della linfa di quelli portati da casa all’inizio. E quando le navi stellari, se ne andavano da quel mondo, le piante di quel posto se ne andavano con i due volte estirpati nipoti della Terra e così cresceva la foresta di casa.
Dirk e Gwen passarono lentamente attraverso la foresta, come altri avevano camminato per la stessa foresta su una decina di altri mondi. E loro conoscevano gli alberi. Acero da zucchero, là ed aceri del fuoco, querce e falsequerce, boscargenti e pini tossici, asteni. Gli abitanti dei mondi esterni li avevano portati qui, proprio come i loro antenati li avevano portati sul Margine, per aggiungere una nota che ricordasse la loro casa, a prescindere da dove si trovasse la loro casa.
Ma qui, questi boschi parevano diversi.
Era per via della luce, capì Dirk dopo un po’. La luce piovigginosa che scendeva così scarna dal cielo, la debole luminosità rossa che era il giorno di Worlorn. Era una foresta crepuscolare. Chiusa in un tempo più lento del solito — in un autunno più vasto di qualsiasi altro — la foresta stava morendo.
Allora Dirk guardò più attentamente e vide che gli aceri da zucchero erano completamente nudi; alla base dei tronchi c’erano le foglie cadute. Non sarebbero mai più rinverdite. Anche le querce erano spoglie. Dirk si fermò e tirò una foglia da un acero del fuoco e vide che la sottile venatura rossa era diventata nera. Ed i boscargenti erano tutti rosso ruggine.
Tra poco sarebbe venuta la marcescenza.
In certe parti della foresta c’erano già degli alberi marci. In una radura abbandonata dove l’humus era più spesso e più nero che in altri punti, Dirk notò uno strano odore. Guardò interrogativamente Gwen. Lei si chinò e prese una manciata di roba nera e gliela mise vicino al naso. Dirk si girò dall’altra parte.
«È un letto di muschio», gli disse con tono di scusa. «Lo hanno portato qui da Eshellin. Un anno fa era tutto verde e rosso, con mille fiori vivaci. In breve è diventato tutto nero».
Si spinsero ancora più dentro la foresta, lontano dal lago e dalla montagna. I soli erano al massimo della loro orbita, Grasso Satana era pallido e gonfio come una luna inzuppata di sangue, circondato in maniera irregolare da quattro piccole stelle-soli. Worlorn era ormai troppo lontano ed era andato dalla parte sbagliata; l’effetto della Ruota non si sentiva più.
Avevano camminato per più di un’ora ed il carattere della foresta che li circondava aveva cominciato a mutare. Lentamente, sottilmente, era cambiata, in maniera quasi troppo graduale per poter essere notato da Dirk. Ma Gwen glielo fece notare. Il familiare insieme che costituiva le foreste di casa si stava rarefacendo e si stava formando qualcosa di strano, qualcosa di unico, qualcosa di selvaggio. Smilzi alberi neri con foglie grigie, alti muri di radica a puntini rossi, cadenti velette di un azzurro fosforescente, grandi forme bulbose infestate di scure macchie fioccose; Gwen indicò tutti questi alberi e li chiamò per nome. Un tipo divenne sempre più comune: un vegetale torreggiante e giallastro che allungava rami tortuosi dal tronco cereo ed escrescenze più piccole da quei rami ed altre ancora più piccole da quelle, in modo da costruirsi attorno una specie di labirinto ligneo. «Soffocatori», li chiamò Gwen e subito Dirk capì perché. Uno dei soffocatori era cresciuto qui, in mezzo al bosco, vicino ad un regale boscargento, gettando gialli e :ontorti rami cerosi che si mescolavano coi maestosi rami grigi, infilando le radici al di sotto ed attorno quelle dell’altro albero, costringendo il rivale ad un ruolo subordinato sempre più costrittivo. Ormai il boscargento si vedeva appena: un lungo bastone morto perduto nel soffocatore che si gonfiava.
«I soffocatori sono originari di Tober», disse Gwen. «Ormai stanno impadronendosi della foresta qui, come è già successo là. Avremmo potuto dir loro che poteva capitare, ma non ci avrebbero fatto caso. Comunque le foreste erano già tutte condannate, prima ancora che fossero piantate. Anche i soffocatori moriranno, però saranno gli ultimi ad andarsene».
Proseguirono ed i soffocatori si fecero sempre più abbondanti e dopo un po’ dominavano la foresta. Qui i boschi erano più densi, più cupi; era più difficile passare. Si inciampava in radici semisepolte, mentre i rami tortuosi su di loro si intrecciavano come braccia distese di lottatori giganti. Nel punto dove due o tre o più soffocatori crescevano vicino, parevano mescolarsi in un unico nodo contorto e Gwen e Dirk erano costretti a cambiare strada. Le altre piante quasi non esistevano. C’erano solo letti di funghi bianchi e viola che crescevano ai piedi degli alberi gialli, assieme a cordoni di telaschiuma parassita.
Ma c’erano degli animali.
Dirk li vide muovere tra i bui intrecci dei soffocatori e ne udì gli alti gridi trillanti. Alla fine ne vide uno. Era seduto proprio sulle loro teste su di un gonfio ramo giallo e li guardava; grande come un pugno, immobile ed in qualche modo… trasparente. Toccò una spalla di Gwen e fece cenno verso l’alto.
Ma lei sorrise e poi rise leggermente. Quindi allungò un braccio verso il punto in cui era appollaiata la piccola creatura e la frantumò tra le mani. Quando Gwen aprì il pugno, c’era solo più polvere e tessuto morto.
«Ci deve essere un nido di spettri-d’albero qui attorno», spiegò lei. «Cambiano la pelle quattro o cinque volte prima della loro maturità e lasciano gli involucri di guardia per spaventare gli altri predatori». Allungò un dito. «Eccone uno vivo, se ti interessa».
Dirk guardò e riuscì appena a scorgere una cosina gialla che scappava con denti acuminati ed enormi occhi marroni. «Volano pure», gli disse Gwen. «Hanno una membrana che va dalle braccia alle gambe e permette loro di volare da un albero all’altro. Sono predatori, sai. Cacciano a branchi e possono abbattere creature cento volte più grandi di loro. Ma di solito non attaccano gli uomini, a meno che non si inciampi in un loro nido».