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Lo spettro d’albero se ne era andato, invisibile in mezzo a quel labirinto di rami di soffocatori, ma Dirk credette di vederne un altro, per un breve istante, con la coda dell’occhio. Studiò i boschi che lo circondavano. Gli involucri di pelle trasparente erano dappertutto e lo osservavano ferocemente nella luce crepuscolare dalle loro grucce come piccoli spettri tenebrosi. «Sono queste le cose che sconvolgono così tanto gli Janacek, non è vero?», chiese lui.

Gwen annuì. «Gli spettri sono una peste su Kimdiss, ma qui si trovano nel loro elemento naturale. Si adattano perfettamente ai soffocatori e riescono a muoversi tra i labirinti di rami più velocemente di qualsiasi altra cosa che io abbia visto. Li abbiamo studiati in maniera piuttosto completa. Stanno ripulendo le foreste. Poco per volta uccideranno tutto ciò che è vìvo e moriranno anche loro di fame. Però non ne avranno il tempo. Lo scudo si guasterà ben prima e verrà il freddo». Mosse le spalle in un gesto di indifferenza e posò il braccio su di un ramo leggermente in pendenza. Le loro tute erano ormai diventate dello stesso color giallo sporco dei boschi che li circondavano, ma la manica di Gwen si spostò su e giù mentre lei accarezzava il ramo e Dirk vide il cupo luccichio di giada-e-argento riflettersi sui soffocatori.

«È rimasta molta vita animale?».

«Abbastanza», disse lei. La pallida luce rossa faceva apparire strano l’argento. «Non quanta ce n’era prima, si capisce. La maggior parte degli animali selvatici ha abbandonato la foresta. Questi alberi stanno morendo e gli animali lo sanno. Ma gli alberi dei mondi esterni sono più robusti, più o meno. Dove hanno piantato le foreste del Margine, si trova ancora vita, ancora forte, ancora attiva. I soffocatori, gli alberi fantasma, i vedovi azzurri… saranno fiorenti fino alla fine. Ognuno di loro ha i suoi abitanti, vecchi e nuovi, finché verrà il freddo».

Gwen mosse un braccio pigramente, da una parte e dall’altra ed il braccialetto baluginò, pareva gridasse. Vincoli, ricordi e negazioni, tutto assieme, un giuramento d’amore di giada-e-argento. E lui aveva solo una piccola gemma mormorante fatta a forma di lacrima e piena di ricordi che svanivano.

Dirk alzò gli occhi, guardando al di là di zigzaganti rami di gialli soffocatori, dove troneggiava l’Occhiodaverno in una tenebrosa fetta di cielo ed appariva più stanco che infernale, più spiaciuto che satanico. Ed egli rabbrividì. «Torniamo indietro», disse a Gwen. «Questo posto mi deprime».

Non disse niente altro. Trovarono uno spiazzo lontano dai soffocatori che li premevano da tutte le parti, un posto in cui potevano stendere l’argenteo tessuto metallico dei loro scooter. Poi salirono insieme per il lungo volo che li avrebbe riportati a Larteyn.

3

Fecero di nuovo le corse sulle montagne e questa volta Dirk si comportò un po’ meglio, perdendo meno terreno di quello che aveva perso prima, ma il suo umore non migliorò granché. Per la maggior parte dello stanco viaggio, volarono in silenzio, separati, Gwen alcuni metri più avanti di lui. Alle loro spalle c’era la Ruota di Fuoco spezzata, mutata, e Gwen era una vaga figura di strega che si stagliava contro il cielo, sempre irraggiungibile. La malinconia delle foreste morenti di Worlorn era gocciolata nelle carni di lui e vedeva Gwen tra le palpebre contaminate, una figura di bambola con un abito scolorito come la disperazione, i neri capelli coperti di oleosa luce rossa. Gli vennero in mente delle cose in un caos di colori mentre il vento gli passava accanto ed una cosa era più insistente delle altre. Lei non era la sua Jenny, non lo era e non lo era mai stata.

Per due volte durante il volo, Dirk vide — o gli parve di vedere — il lampo della giada-e-argento, che dava fastidio, come gli aveva dato fastidio quando erano nella foresta. Si costrinse ogni volta a guardare da un’altra parte e vide nuvole nere, lunghe e sottili, che scorrevano per il cielo nudo e vuoto.

L’aerauto a forma di manta e la macchina da guerra verde oliva se ne erano andate dal tetto, quando essi raggiunsero Larteyn. Solo l’apparecchio a forma di goccia di Ruark era rimasto. Loro atterrarono lì accanto — Dirk fece un altro atterraggio goffo e cadde, ma questa volta non era ridicolo, solo stupido — si tolsero gli scooter e le scarpe di volo sulla terrazza, da dove poi le portarono via. Dissero qualche parola presso la cabina, ma Dirk non riuscì a ricordarsi le parole, nemmeno un momento dopo che le aveva dette. Poi Gwen lo lasciò.

Arkin Ruark attendeva pazientemente nelle sue stanze alla base della torre. Dirk trovò un letto reclinabile tra le pareti color pastello, le sculture ed i vasi di piante Kimdissi. Si sdraiò e voleva solo riposarsi, senza pensare, ma lì c’era Ruark che ridacchiava e scuoteva il capo e faceva danzare i capelli biondi e bianchi e che gli metteva un alto bicchiere verde in mano. Dirk lo prese e si sedette. Il bicchiere era di un bel cristallo sottile, liscio e senza fronzoli, con solo una patina di ghiaccio che si scioglieva rapidamente. Bevve ed il vino era molto verde e freddo, incenso e cinnamomo giù per la gola.

«Lei mi pare essenzialmente stanco, Dirk», disse il Kimdissi dopo essersi preso a sua volta qualcosa da bere e si sedette sulla sedia a sdraio di tela con un tonfo, sotto l’ombra di una pianta nera e spiovente. Le foglie lanceolate gettavano ombre striate sul suo viso sorridente e paffuto. Sorseggiò, succhiando rumorosamente la bibita e per un breve momento Dirk lo disprezzò.

«Una giornata lunga», disse vagamente.

«Vero», convenne Ruark. «Eh, la giornata dei Kavalari è sempre lunga. La dolce Gwen, poi Jaantony ed alla fine Garse, ce n’è abbastanza per far sembrare eterna una qualsiasi giornata. Che ne dice?».

Dirk non disse niente.

«Ma adesso», disse Ruark, sorridendo, «ha visto. Volevo proprio questo io, che lei vedesse. Prima di parlarle. Ma avevo promesso che gliene avrei parlato, una promessa che avevo fatto a me stesso. Gwen, lei me ne ha parlato. Si parla, sa, da amici ed io conoscevo la ragazza ed anche Jaan fin da quando si era su Avalon. Ma qui ci siamo conosciuti meglio. Lei non ne parla volentieri, mai, ma con me parla, per lo meno lo ha fatto, ed io devo dirglielo. Senza far violenza alla verità. Lei è proprio la persona che deve sapere».

Il liquore mandava dita gelate nel suo stomaco e Dirk sentì che la stanchezza se ne andava. Gli pareva di essere mezzo addormentato, come se Ruark avesse continuato a parlare per un tempo lunghissimo e come se lui non avesse capito niente. «Di che sta parlando?», disse. «Cos’è che dovrei sapere?».

«Ma come? Che Gwen ha bisogno di lei», disse Ruark. «Perché ha mandato… la cosa. La lacrima rossa. Lo sa. Io lo so. Me lo ha detto lei».

Improvvisamente Dirk fece attenzione, interessato ed incuriosito. «Glielo ha detto», cominciò, poi si fermò. Gwen gli aveva chiesto di aspettare e la promessa che lui aveva fatto tanto tempo fa… però corrispondeva. Forse avrebbe dovuto ascoltare, forse era difficile per lei dirglielo. Ruark doveva sapere. Era suo amico, aveva detto lei nella foresta, l’unico con cui poteva parlare. «Che cosa?».

«Deve aiutarla, Dirk t’Larien, in un modo o nell’altro. Non so come».

«Ma cosa debbo fare?».

«Ad essere libera. A scappare».

Dirk mise giù il bicchiere e si grattò la testa. «Da chi?».

«Da loro. I Kavalari».

Si accigliò. «Vuol dire Jaan? L’ho incontrato stamani, lui e Janacek. Gwen ama Jaan. Non capisco».

Ruark rise, succhiò la sua bibita, rise ancora. Era vestito con un abito a tre pezzi a quadri alternati marroni e verdi, come un buffone e visto lì, seduto a sputar sentenze, pareva davvero un matto.