«Domani», promise Janacek, «sarà mortale». Bevve di nuovo.
«Spererei diversamente», disse Vikary con un vigoroso movimento del capo, «ma temo che tu abbia ragione. I Braith sono troppo pieni di rabbia verso di noi per sparare in aria».
«Proprio così», disse Janacek con un leggero sorriso. «Hanno preso l’insulto davvero male. Per lo meno, Chell Mani-Vuote non perdonerà».
«Ma voi non potete sparare per ferire?», suggerì Dirk. «Per disarmarlo?». Le parole gli vennero spontanee, ma gli parve strano sentirselo dire. La situazione era assolutamente al di fuori della sua esperienza, eppure la stava già accettando, si sentiva stranamente bene con i due Kavalari, con il loro vino ed il loro tranquillo discorrere di morte e di mutilazioni. Forse voleva dire qualcosa essere diventato un kethi; forse era per questo che svaniva l’insicurezza. Dirk sapeva soltanto che si sentiva in pace e a casa.
Vikary pareva turbato. «Ferirli? Lo vorrei anch’io, ma non si può. I cacciatori adesso ci temono. Risparmiano i korariel di Ferrogiada perché hanno paura di noi. Noi salviamo delle vite umane. Ma questo non sarebbe più possibile se domani fossimo troppo indulgenti con i Braith. Gli altri non rinuncerebbero troppo facilmente a cacciare se pensassero che il massimo che rischierebbero fosse una feritina. No, purtroppo penso che dovremo uccidere Chell e Bretan se ci sarà possibile».
«Ci sarà possibile», disse Janacek fiducioso. «E poi, amico t’Larien, non è né facile, né saggio ferire un nemico in duello, anche se ti può parere strano. Disarmarlo noi, be’, ci prendi in giro. È una cosa virtualmente impossibile. Si combatte con laser da duello, amico, non con armi da guerra. Sono armi che sparano impulsi di mezzo secondo ed hanno bisogno di un intero ciclo di quindici secondi per ricaricarsi. Capisci? Un uomo che spara affrettatamente, o mira a bersagli inutilmente difficili, uno che spari per disarmare… è un uomo morto. Si può sbagliare anche a cinque metri e il tuo nemico ti farà secco prima che il tuo laser sia pronto per il secondo colpo».
«È una cosa impossibile?», disse Dirk.
«C’è un sacco di gente che rimane solo ferita in duello», gli disse Vikary. «Per la verità più di quelli che restano uccisi. Comunque, nella maggior parte dei casi, questo non era il risultato desiderato. A volte sì. Quando un uomo spara in aria ed il suo nemico decide di punirlo, allora è il caso che vengano inflitte terribili cicatrici. Ma questo non succede spesso».
«Potremmo ferire Chell», disse Janacek. «È vecchio e lento, non riuscirà a raggiungere la sua arma velocemente con la mano. Ma Bretan Braith è un altro paio di maniche. Si dice che abbia già ucciso più di mezza dozzina di persone».
«A quello ci penso io», disse Vikary. «Tu vedi di fare attenzione che il laser di Chell non spari, Garse, sarà sufficiente questo».
«Forse». Janacek guardò Dirk. «Se riuscissi a tagliuzzare un pochino Bretan, t’Larien, al braccio o sulla mano, o sulla spalla… dagli solo un taglio, che gli faccia male, che lo rallenti un po’. La cosa sarebbe ben diversa». Ghignò.
Anche se non lo voleva, Dirk scoprì che gli stava restituendo il sorriso. «Ci posso provare», disse, «ma ricordati, io so maledettamente poco di duelli e ancor meno delle spade e la mia prima preoccupazione sarà quella di restare vivo».
«Non vaneggiare l’impossibile», disse Janacek, sempre sorridendo. «Cerca solo di fare il più gran danno ppssibile».
Si apri la porta. Dirk si voltò ed alzò gli occhi. Janacek si azzittì. Sulla porta era apparsa Gwen Delvano, con il viso e gli abiti striati di polvere. Fissò incerta una faccia dopo l’altra, poi entrò lentamente nella stanza. Aveva un pacco di sensori sulla spalla. Arkin Ruark la seguiva, portando due pesanti casse di strumenti sotto le braccia. Era sudato ed ansante, indossava pesanti braghe verdi, un giubbotto ed un cappuccio e sembrava assai meno frivolo del solito.
Gwen abbassò lentamente il pacco di sensori a terra, ma lo tenne stretto per la cinghia. «Danni?», disse. «Di cosa parlate? Chi è che deve fare dei danni e a chi?».
«Gwen», cominciò Dirk.
«No», lo interruppe Janacek. Stava in piedi assai rigido. «Il Kimdissi se ne deve andare».
Ruark si guardò attorno, con la faccia bianca, perplesso. Tirò indietro il cappuccio e cominciò ad asciugarsi la fronte sotto i capelli biondi e bianchi. «Che immane sciocchezza, Garsey», disse. «Che cos’è un grande segreto Kavalar, eh? Una guerra, una caccia, un duello, una qualche violenza, sì? Ah, non mi piace indagare su queste cose, no, non fanno per me. Allora vi lascio soli, sì, statemi bene». Si voltò e si avviò verso la porta.
«Ruark», disse Jaan Vikary. «Aspetta».
Il Kimdissi si fermò.
Vikary si mise di fronte al suo teyn. «Bisogna dirlo anche a lui. Se fallissimo…».
«Non falliremo!».
«Se fallissimo, hanno promesso di cacciare anche loro. Garse, è coinvolto anche il Kimdissi. Bisogna dirglielo».
«Tu sai ciò che capiterà. Su Tober, su Lupania, su Eshellin, attraverso tutto il Margine. Lui e quelli della sua razza spargeranno bugie e tutti i Kavalari saranno dei Braith. È così che lavorano i maneggioni, i falsuomini». La voce di Janacek non aveva l’umorismo selvaggio con cui aveva punzecchiato Dirk; era una voce fredda e seria adesso.
«La sua vita è in pericolo adesso ed anche quella di Gwen», disse Vikary. «Bisogna dirglielo».
«Tutto?».
«La sciarada è finita», disse Vikary.
Ruark e Gwen parlarono contemporaneamente.
«Jaan, che cosa…», cominciò lei.
«Sciarada, vita, caccia, ma cosa diavolo succede? Parlate!».
Jaan Vikary si voltò e glielo disse.
7
«Dirk, Dirk, lei non può parlare seriamente. No, non ci credo. Fino ad adesso avevo pensato sempre che, be’ sì, che lei fosse migliore di loro. E adesso mi viene a parlare così? No, sto sognando. Questa è assoluta follia!». Ruark si era un po’ ripreso. Con la sua vestaglia lunga, di seta verde ricamata con dei gufi, pareva più lui, anche se pareva tristemente fuori posto in mezzo alla confusione del laboratorio. Si era seduto su di uno sgabello alto e voltava la schiena agli scuri schermi rettangolari del quadro di comando del computer; i piedi calzati di pantofole erano incrociati alle caviglie e le mani grassocce tenevano un bicchiere alto, gelato, con il verde vino Kimdissi. La bottiglia era dietro di lui, messa vicina a due bicchieri vuoti.
Dirk era seduto su di una grande tavola da lavoro di plastica, con le gambe ripiegate sotto di sé ed il gomito appoggiato su di un pacco di sensori. Si era fatto un po’ di spazio spostando in là il pacco e togliendo di mezzo una serie di fotografie su carta. La stanza era in un caos incredibile. «Non vedo nessuna follia», disse testardamente. I suoi occhi vagavano per la stanza anche mentre continuava a parlare. Non era mai stato prima d’ora nel laboratorio. Era più o meno grande come il soggiorno nell’appartamento dei Kavalari, però pareva molto più piccolo. Contro una parete era allineata una batteria di piccoli computer. Dall’altra parte c’era una gigantesca mappa di Worlorn, tracciata in una dozzina di colori diversi, piena di spilli di forma diversa infilati dappertutto e diversi segnalini. Nel mezzo c’erano tre tavoli da lavoro. Era qui che Gwen e Ruark mettevano assieme i loro pezzettini di conoscenza dopo averli cacciati nelle foreste del morente pianeta del festival, ma a Dirk pareva più un quartier generale di tipo militare.
Dirk non sapeva ancora bene perché loro due fossero là. Dopo la lunga spiegazione di Vikary e l’acrimoniosa discussione che era seguita tra Ruark ed i due Kavalari, il Kimdissi era sceso nelle sue stanze, battendo vistosamente i piedi, e si era portato dietro Dirk. Non era sembrato il momento giusto per parlare con Gwen. Ma non appena Ruark si era cambiato d’abito e si era calmato i nervi con una buona sorsata di vino aveva insistito perché Dirk lo accompagnasse nel laboratorio. Si era portato dietro tre bicchieri, ma Ruark era il solo che beveva. Dirk si ricordava ancora della volta precedente e poi doveva pensare all’indomani; doveva essere scattante. Tra l’altro, se il vino Kimdissi si accordava con quello Kavalar allo stesso modo in cui i Kimdissi andavano d’accordo con i Kavalari, sarebbe stato un vero e proprio suicidio berli uno dopo l’altro.