«Tu non hai teyn», disse Dirk.
Il vecchio borbottò: «Naturalmente avevo un teyn, spettro. Io ero un poeta, non un prete. Che razza di domanda è mai questa? Attento. Potrei accusare insulto».
«Non porti il ferro-e-fuoco», sottolineò Dirk.
«Abbastanza vero, però che importa? Gli spettri non hanno bisogno di gioielli. Il mio teyn è morto da trent’anni e vaga per qualche granlega laggiù in Rossacciaio, immagino, ed io sono qui che vago per Worlorn. Be’, se devo dire la verità, solo per Larteyn. Vagare per un intero pianeta deve essere proprio stancante».
«Ah», disse Dirk sorridendo. «Allora anche tu sei uno spettro?».
«Be’, sì», rispose il vecchio. «Eccomi qui, a parlare con te perché mi mancano delle robuste catene da strascicare. Tu chi pensi che io sia?».
«Io penso», disse Dirk, «penso che tu potresti soltanto essere Kirak Rossacciaio Cavis».
«Kirak Rossacciaio Cavis», ripeté il vecchio con una strana burbera cantilena. «Lo conosco. Uno spettro come pochi altri. Il suo particolare destino è quello di occupare il cadavere della poesia Kavalar. Va in giro di notte ad ululare recitando versi tratti dai lamenti di Jamis-Leone Taal ed alcuni dei migliori sonetti di Erik Alto-Ferrogiada Devlin. Durante la luna piena canta gli inni di battaglia di Braith e qualche volta i canti funebri degli antichi cannibali dei Siti del Carbone Profondo. Uno spettro, infatti ed anche molto patetico. Quando vuole tormentare in modo particolare una delle sue vittime, lui le recita qualcuno dei suoi versi, ti assicuro che quando hai sentito una volta Kirak Rossacciaio, le catene strascicate sono molto meglio».
«Sì?», disse Dirk. «Non capisco perché essere un poeta debba essere, di per se stessa, una cosa tanto spettrale».
«Kirak Rossacciaio scrive poesie in Antico Kavalar», disse l’uomo con un cipiglio. «E questo è già abbastanza. È una lingua che muore. Quindi chi mai leggerà ciò che scrive? Nella sua granlega, gli uomini nascono e imparano a parlare soltanto il classico linguaggio stellare. Può darsi che traducano la sua poesia, ma è uno sforzo che non ne vale la pena, sai. Nella traduzione non si possono mantenere le rime e la metrica è molle come un falsuomo dalla schiena rotta. Non c’è niente di buono nelle sue traduzioni, nemmeno un po’. Le cadenze tintinnanti di Galeno Pietraluce, i dolci inni di Laaris-Cieco alto-Kenn, tutti quei piccoli Scianagate monotoni che esaltano il ferro-e-fuoco, perfino le canzoni delle eyn-kethi, queste son cose che non possono quasi più dirsi poesia. È tutto morto, il minimo pezzettino è morto e sopravvivono soltanto in Kirak Rossacciaio. Sì, quest’uomo è uno spettro. Altrimenti perché sarebbe venuto su Worlorn? Questo è un mondo per spettri». Il vecchio si tirò la barba ed osservò Dirk. «Tu sei lo spettro di un qualche turista, oserei immaginare. Indubbiamente ti sei perduto mentre cercavi una toeletta e da quel momento hai cominciato a vagare».
«No», disse Dirk, «no. Stavo cercando qualcos’altro». Sorrise e sollevò la gemma mormorante.
Il vecchio la osservò, strizzando gli occhi azzurri, mentre il vento fresco gli faceva svolazzare il mantello. «Qualsiasi cosa sia, probabilmente è morta», disse. Lontano da loro, giù, presso il fiume che scintillava attraverso il Comune, un suono veleggiò fino a loro: il gemito debole e distante di una banscea. Dirk voltò il capo di scatto e guardò per vedere da dove era arrivato il rumore. Non c’era niente, niente… solo loro due, in piedi sulle mura, il vento che li spingeva ed Occhiodaverno alto nel cielo crepuscolare. Non c’erano banscee. Il tempo delle banscee era passato quaggiù. Erano tutte estinte.
«Morta?», disse Dirk.
«Worlorn è piena di cose morte», disse il vecchio, «e di gente che cerca cose morte e spettri». Mormorò qualcosa in Antico Kavalar, qualcosa che Dirk non riuscì a comprendere pienamente e cominciò ad allontanarsi lentamente.
«Dirk lo osservò mentre si allontanava. Fissò il distante orizzonte, oscurato da un banco di nubi grigie e azzurre. Da qualche parte, in quella direzione, c’era lo spazioporto e — lui ne era certo — Bretan Braith. «Ah, Jenny», disse, parlando alla gemma mormorante. La gettò lontano da lui, come un ragazzo che lanci una pietra e la gemma andò lontano, lontanissimo, prima di cominciare a cadere. Pensò per un momento a Gwen, a Jaan e per parecchi istanti a Garse.
Poi si rivolse ancora al vecchio e gridò verso la figura che si allontanava. «Spettro!», gli chiese. «Aspetta. Mi faresti un favore, da uno spettro ad un altro!».
Il vecchio si fermò.
Epilogo
Era uno spiazzo piatto ed erboso al centro del Comune, non troppo lontano dallo spazioporto. Una volta, ai giorni del festival, qui si erano tenuti dei giochi ed atleti di undici dei quattordici mondi esterni avevano gareggiato per conquistare una corona di ferro cristallino.
Dirk e Kirak Rossacciaio si presentarono lì assai prima di quando era stato previsto ed aspettavano.
Quando l’ora dell’appuntamento si fece prossima, Dirk cominciò ad innervosirsi. Non doveva aver fretta. L’aerauto con il tettuccio a forma di lupo ringhiante apparve nel cielo esattamente al momento stabilito. Spazzò il campo una volta con i getti che stridevano, un passaggio basso per assicurarsi che loro c’erano davvero, poi scese per atterrare.
Bretan Braith si avvicinò camminando attraverso l’erba morta e marrone, calpestando con gli stivali neri un cespuglio di fiori sbiaditi. Era quasi il tramonto. Il suo occhio cominciava ad essere brillante.
«Allora mi hanno detto la verità», disse Bretan a Dirk, e la sua voce gracchiante era un po’ stupita, la stessa voce che Dirk aveva tanto spesso udito durante i suoi incubi, una voce parecchie ottave più bassa e contorta di quella che ci si sarebbe aspettati da un uomo sottile e diritto come Bretan. «Allora sei proprio qui». Il Braith era in piedi a parecchi metri di distanza e li guardava, infinitamente candido, vestito con abiti da duello bianchi con una maschera di lupo purpureo ricamata sopra il cuore. Nella cintura nera c’erano due armi: un laser a sinistra ed una pistola massiccia di metallo blu e grigio, pesante sulla destra. Il braccialetto di ferro era privo di pietreluci. «Se devo dire la verità non avevo creduto al vecchio Rossacciaio», stava dicendo lui. «Però ho pensato, questo posto è vicinissimo, non può far male a nessuno se vado a controllare. Se la cosa si dimostrasse falsa, posso sempre ritornare velocemente allo spazioporto».
Kirak Rossacciaio si mise in ginocchio e cominciò a disegnare col gesso, un quadrato sull’erba.
«Tu sei sicuro che io ti voglia onorare con un duello», disse Bretan. «Ma io non sono obbligato a farlo». Spostò la mano destra e Dirk si trovò improvvisamente davanti la canna della pistola mitragliatrice. «Perché non dovrei ucciderti? Adesso, subito!».
Dirk si strinse nelle spalle. «Uccidimi se vuoi», disse, «ma prima rispondi ad una domanda».
Bretan lo fissò e non disse niente.
«Se io fossi venuto da te, a Sfida», disse Dirk, «se fossi sceso nei sotterranei, come volevi tu, allora avresti duellato con me? O mi avresti ucciso come un falsuomo?».
Bretan fece scivolare la pistola nel fodero. «Avrei duellato con te. A Larteyn, a Sfida, qui… non fa nessuna differenza. Avrei duellato con te. Io non credo nei falsuomini, t’Larien. Non ho mai creduto nei falsuomini. Solo in Chell, che portava il mio vincolo e chissà perché non si curava del mio aspetto».
«Sì», disse Dirk. Kirak Rossacciaio aveva completato il quadrato per metà. Dirk alzò gli occhi al cielo e si chiese quanto tempo restasse. «E un’altra cosa Bretan Braith. Come hai fatto a sapere di doverci cercare a Sfida, proprio in quella città e non in altre?».