Figure sottili si muovevano attorno al relitto. Dirk non se ne sarebbe quasi accorto se quelli non si fossero mossi, poiché si mimetizzavano perfettamente con lo sfondo. Lì vicino, qualcuno portava i cani Braith facendoli uscire da una porta sulla fiancata della macchina di Lorimaar.
Dirk si accigliò e toccò il controllo di gravità, facendo sollevare il suo aeromobile, finché uomini e macchine sparirono alla vista e sotto di lui non rimase nient’altro che un punto luminoso nella foresta. Per la verità, erano due punti, ma il fuoco si era ormai trasformato in un pallido tizzone arancione, che diventava visibilmente meno luminoso.
Dirk si soffermò a pensare, al sicuro nel buio ventre del cielo.
La macchina danneggiata era quella di Roseph, la stessa macchina che loro avevano rubato a Sfida, la macchina con cui Jaan Vikary aveva volato fino a Larteyn quel mattino. Di questo ne era sicuro. I Braith lo avevano trovato, chiaro, e lo avevano inseguito nella foresta, abbattendolo. Eppure gli pareva improbabile che lui fosse morto; altrimenti, quale era lo scopo dei cani Braith? Lorimaar non aveva certo fatto uscire la muta per farle fare una passeggiata. Era assai più probabile che Jaan fosse sopravvissuto e fosse poi scappato nella foresta e adesso i Braith stavano andando a dargli la caccia.
Dirk ci pensò su un momento, cercando di pensare ad un sistema di fuga, ma le prospettive parevano scarse. Lui non aveva nessuna idea su come fare a scovare Jaan in un mondo straniero e per di più ammantato di tenebre notturne. I Braith erano molto meglio equipaggiati per una battuta di quel tipo.
Dirk riprese la sua rotta verso le montagne, al di là delle quali c’era Larteyn. Nella foresta, solo com’era, anche se armato, non poteva fare davvero molto per aiutare Jaan Vikary. Nella Fortezza di Luce, invece, mal che andasse poteva sempre terminare l’incarico del Ferrogiada e chiudere la partita con Arkin Ruark.
La montagna gli scivolò sotto e Dirk si rilassò ancora di più, anche se continuava a tenere una mano sul fucile a laser poggiato sulle ginocchia.
Il volo durò meno di un’ora; poi, addossata sulla montagna si cominciò a vedere Larteyn, rossa e brillante. Pareva proprio morta, proprio vuota, ma Dirk sapeva che la sensazione era menzognera. Lui si mantenne basso per non perdere tempo e si lanciò attraverso le basse terrazze quadrate e le piazze di pietraluce verso l’edificio che qualche tempo prima lo aveva accolto assieme a Gwen Delvano, i due Ferrogiada ed il Kimdissi bugiardo.
C’era solo un’altra aerauto sulla terrazza battuta dal vento: il pezzo da museo, corazzato di stile militare. Non c’era nessun segno del piccolo velivolo giallo di Ruark e mancava anche la manta grigia. Dirk si chiese per un attimo che cosa ne fosse stato di quell’apparecchio, abbandonato a Sfida, poi mise da parte il pensiero e si apprestò a scendere.
Tenne stretto il laser in mano mentre usciva. Il mondo era calmo e cremisi. Si avviò in fretta verso gli ascensori e scese nell’appartamento di Ruark.
Le stanze erano vuote.
Le setacciò con cura, rivoltando le cose da una parte e dall’altra, senza preoccuparsi di dare fastidio a qualcuno, senza curarsi di ciò che distruggeva. Tutti gli averi del Kimdissi erano ancora al loro posto, ma Ruark non c’era e non c’era nemmeno nessun segno che gli permettesse di capire dove fosse andato.
C’erano anche le cose di Dirk, le poche cose che si era lasciato alle spalle quando lui era scappato con Gwen. Si trattava di pochi abiti leggeri che si era portato da Braque. Inutili qui nel gelo di Worlorn. Dirk mise giù il laser, si inginocchiò e cominciò a rovistare nelle tasche dei suoi pantaloni sporchi. Poi la trovò… infilata in fondo, ancora nel suo involucro di argento e di velluto. Allora si rese conto che quella era la vera ragione per cui era ritornato a Larteyn.
Nella stanza da letto di Ruark trovò una cassettina di gioielli personali: anelli, ciondoli, braccialetti intricati e corone, orecchini di pietre semipreziose. Rovistò nella cassetta finché non trovò una sottile catenina con un gufo in filigrana d’argento inglobato nell’ambra e sospeso con un fermaglio. Dirk strappò via l’ambra ed il gufo e lo sostituì con la gemma mormorante.
Poi si sbottonò il giubbotto e la camicia pesante e si appese la catena al collo, in modo che la lacrima rossa e gelida fosse proprio vicina alla pelle nuda, a mormorare i suoi sussurri, a promettere le sue bugie. Il sottile pugnale di ghiaccio faceva male al petto, ma per lui andava bene così; era Jenny. Dopo un momento si fu abituato e tutto passò. Lacrime salate gli rotolarono lungo le guance. Lui non se ne accorse. Sali le scale.
Il laboratorio che Ruark aveva condiviso con Gwen era tutto ingombro, come se lo ricordava lui, ma il Kimdissi non c’era. E non c’era nemmeno nell’appartamento superiore, dove Dirk aveva chiamato Ruark quando era stato a Sfida. C’era solo un ultimo posto dove andarlo a cercare.
Salì velocemente in cima alla torre. La porta era aperta. Esitò un momento, poi entrò, tenendosi pronto con il laser.
Il grande soggiorno era sommerso dal caos e dalla distruzione. Il visischermo era stato spaccato, oppure era esploso; c’erano frammenti di vetro dappertutto. Le pareti erano deturpate da colpi di laser. I divani erano stati rivoltati ed erano rotti in decine di punti, dove l’imbottitura usciva fuori a manciate ed era sparsa da tutte le parti. In parte si era rovesciata nel caminetto, dove aveva contribuito a creare il fumo caliginoso che impregnava l’ambiente. Una delle cariatidi, priva di testa e messa al contrario era appoggiata alla base del camino. La testa, con tutte le pietraluci, era stata gettata nella cenere nera del camino. L’aria sapeva di vino e di vomito.
Garse Janacek dormiva sul pavimento, senza camicia, la barba rossa macchiata era anche più rossa per via del vino che la inzaccherava e la bocca era aperta. Puzzava come tutta la stanza. Russava forte e stringeva ancora in una mano la sua pistola laser. Dirk vide la camicia appallottolata in una polla di vomito che Janacek aveva tentato di asciugare un po’ come veniva.
Dirk gli girò attorno con cautela e tolse il laser dalle dita molli di Janacek. Il teyn di Vikary non era affatto il ferreo Kavalar che Jaan si immaginava.
Sul braccio destro di Janacek c’era ancora il vincolo di ferro-e-pietraluce. Alcune gemme rosse e nere erano state scalzate dalla loro incastonatura; i buchi vuoti parevano osceni. Ma la maggior parte del braccialetto era intatto, tranne nel punto in cui erano state praticate delle lunghe deturpazioni. Anche l’avambraccio di Janacek, al di sopra del braccialetto, era ferito. Erano ferite profonde e spesso proseguivano le striature fatte nel ferro. Sia il braccio che il braccialetto erano incrostati di sangue secco.
Accanto agli stivali di Janacek, Dirk vide il lungo coltello macchiato di sangue. Poteva immaginarsi il resto. Ubriaco, questo era certo, con la mano sinistra in parte impedita dall’antica ferita, aveva cercato di scalzare le pietreluci, poi aveva perso la pazienza ed aveva colpito selvaggiamente, affondando la lama nel suo dolore e nella sua rabbia.
Dirk arretrò leggermente, evitò la camicia bagnata di Janacek, si fermò presso la porta, sollevò il fucile e gridò: «Garse!».
Janacek non si mosse. Dirk ripeté il grido. Questa volta il volume della ronfata diminuì sensibilmente. Incoraggiato, Dirk si chinò e raccolse il primo oggetto che gli venne in mano — una pietraluce — e lo lanciò verso il Kavalar. Colpi Janacek sulla guancia.