Senza dir niente l’uomo venne avanti, prese il gioiello, lo tenne in mano per un istante, poi lo mise nella tasca della giacca. Si voltò senza sorridere e cominciò a camminare attorno al perimetro del campo Braith, spegnendo le torce a mano elettriche che erano state piantate nella sabbia. Quando le luci si spensero, Dirk vide che l’orizzonte orientale era già arrossato dall’alba.
Pyr fece un cenno con il suo bastone a Saanel. «Lascialo», gli ordinò ed il grassone allentò la stretta e fece un passo indietro. Dirk fu di nuovo libero. Il collo gli faceva male e la sabbia asciutta sotto i piedi era ruvida e fredda. Si sentì molto vulnerabile. Senza la gemma mormorante aveva molta più paura adesso. Si guardò attorno per vedere Garse Janacek, ma il Ferrogiada era lontano dall’altra parte del campo che parlava attentamente con Lorimaar.
«L’alba è già qui», disse Pyr. «Io ti seguirò subito, falsuomo. Scappa».
Dirk guardò sopra la spalla. Roseph aggrottò la fronte e si massaggiò ia spalla; aveva fatto una brutta caduta quando Dirk si era liberato. Saanel, sogghignando, si era appoggiato contro un aerauto. Dirk fece alcuni passi allontanandosi da loro, esitante, avviandosi verso la foresta.
«Via, t’Larien, sono sicuro che tu sai correre più veloce di così», gli gridò Pyr. «Se corri abbastanza forte, puoi anche cavartela. Io ti sarò dietro tra poco, con il mio teyn e i nostri cani». Si tolse la pistola dal fianco e la lanciò, facendola roteare, verso Saanel, che l’afferrò, inglobandola nelle mani massicce dalle dita quadrate. «Non avrò laser, t’Larien», continuò Pyr. «Sarà una caccia purissima, alla vecchia maniera. Un cacciatore col coltello ed il pugnale da lancio, una preda nuda. Scappa, t’Larien, scappa!». Il suo compagno ossuto con i capelli neri, gli era venuto vicino per seguirlo. «Mio teyn», gli disse Pyr, «libera i cani».
Dirk roteò su se stesso e scattò verso il bordo della foresta.
Fu una corsa d’incubo.
Gli avevano preso gli stivali; non era nemmeno andato avanti per tre metri, che già si era fatto un taglio nel piede con una pietra aguzza nascosta nel buio e cominciò a zoppicare. C’erano un mucchio di pietre. Mentre correva gli pareva di trovarle tutte.
Gli avevano tolto i vestiti; stando al coperto degli alberi era un po’ meglio, perché non c’era il vento che soffiava forte, ma aveva ancora freddo. Molto freddo. Per un bel po’ ebbe la pelle d’oca, poi gli passò. Gli vennero altri dolori ed il freddo perse tutta la sua importanza.
La foresta di quel mondo era troppo scura e troppo luminosa. Troppo scura per poter vedere dove stava andando. Inciampava nelle radici, si sbucciò le ginocchia e le mani gli sanguinarono parecchio, cadde dentro i buchi. Ma era al tempo stesso troppo luminosa. L’alba stava arrivando troppo in fretta, troppo in fretta, la luce si spandeva scialba al di sopra degli alberi. Stava per perdere il suo punto di riferimento. Alzava gli occhi per vederlo ogni volta che raggiungeva una radura, ogni volta che gli era possibile vedere qualcosa attraverso il denso fogliame che penzolava dall’alto, alzava gli occhi e la vedeva. Una stella solitaria e rossa, la stella di Alto Kavalaan che fiammeggiava nel cielo di Worlorn. Garse gliela aveva indicata e gli aveva detto di seguirne la direzione se si fosse perduto. La stella lo avrebbe condotto attraverso la foresta al suo laser ed al suo giubbotto. Ma l’alba stava salendo, e saliva troppo in fretta; i Braith ci avevano impiegato troppo tempo a liberarlo. E tutte le volte che alzava gli occhi e cercava di seguire la direzione giusta — la foresta era fitta e confusa, i soffocatori formavano delle pareti impenetrabili in certi punti e lo costringevano a degli aggiramenti, tutte le direzioni parevano uguali e non ci voleva niente a perdere la strada — ogni volta che cercava il suo punto di riferimento, questo era sempre più debole, sempre più slavato. La luce orientale aveva assunto una colorazione rossastra: da qualche parte, laggiù, c’era Grasso Satana che sorgeva e presto la sua stella amica sarebbe stata cancellata dalla luce di quel falso crepuscolo. Tentò di correre più in fretta.
C’era meno di un chilometro da percorrere, meno di un chilometro. Ma un chilometro era una distanza notevole da percorrere in una foresta, nudo, sul punto di perdersi. Stava correndo da dieci minuti, quando sentì i cani Braith che abbaiavano selvaggiamente al suo inseguimento.
Dopo di ciò non pensò più a niente e non era nemmeno preoccupato. Correva.
Scappò, afferrato da un panico animalesco, respirando forte, sanguinante, con tutto il corpo che gli tremava e gli doleva. La corsa divenne una cosa senza fine, una cosa al di fuori del tempo, un sogno febbrile fatto di piedi che battevano freneticamente e frammenti di sensazioni vivide e dei rumori dei cani dietro di lui, che si facevano sempre più vicini… o per lo meno gli pareva. Correva e correva e non arrivava in nessun posto, correva e correva e non si muoveva. Finì in un folto cespuglio di rovi e le spine dalla punta rossa gli bucarono la pelle in un centinaio di posti e non gridò; correva, correva. Raggiunse una zona di lastre grige e lisce e cadde, cercando di superarle velocemente, e si ferì il mento battendo con uno schianto contro la pietra e si trovò la bocca piena di sangue che sì affrettò a sputare. C’era del sangue sulle pietre. Non c’era da meravigliarsi che fosse caduto; il suo sangue, tutto quel sangue, che gli era uscito dalle ferite dei piedi.
Si arrampicò sulle lastre lisce e raggiunse di nuovo gli alberi e corse ancora, selvaggiamente, finché gli venne in mente che non aveva più tenuto conto del suo punto di riferimento. E poi lo rivide, lo aveva alle spalle, un po’ di lato, molto sbiadito, un piccolo puntino scintillante nel cielo~ scarlatto. Si voltò e andò in quella direzione, inciampando in radici invisibili, strappando freneticamente con le mani il fogliame, scappando, scappando. Si imbatté in un ramo basso, cadde a terra e si rialzò tenendosi il capo, continuò a correre. Inciampò in uno scivoloso strato di muschio, nero, che sapeva di marcio, si alzò coperto di melma, puzzolente, corse, corse. Cercò la sua stella ed era scomparsa. Continuò ad andare. Doveva essere la strada giusta, doveva. I cani gli erano dietro e abbaiavano. C’era solo un chilometro, era meno di un chilometro. Stava gelando. Era tutto un fuoco. Il torace era pieno di coltelli. Continuò a correre, barcollò, inciampò e cadde, si alzò, continuò a correre. C’erano i cani dietro di lui, vicini, vicini, i cani gli erano dietro.
E poi improvvisamente — non seppe dire quando, non sapeva per quanto tempo avesse corso, non sapeva quanti chilometri avesse percorso, la stella era scomparsa — gli parve di sentire un leggero odore di fumo portato dal vento della foresta. Corse da quella parte ed usci dagli alberi in una piccola radura. Si lanciò dalla parte opposta dello spiazzo e si fermò.
I cani erano davanti a lui.
Per lo meno uno di loro. Venne fuori furtivamente dagli alberi ringhiando, con gli occhietti feroci, il muso privo di peli tirato indietro per mostrare le zanne orribili. Cercò di aggirarlo, ma quello gli fu sopra, sferzandolo e girando con lui, poi saltò. Dirk cadde sulle ginocchia; il cane lo circondò e chiudeva le mascelle tutte le volte che cercava di alzarsi in piedi. Gli aveva morso il braccio sinistro ed era uscito dell’altro sangue, ma non lo aveva ucciso, non gli aveva strappato la gola. Ammaestrato, pensò, era ammaestrato. Gli girava attorno, girava, ed i suoi occhi non lo abbandonavano mai. Pyr lo aveva mandato avanti e adesso veniva dietro con il suo teyn e gli altri cani. Questo serviva per intrappolarlo finché non arrivavano gli altri.
Improvvisamente Dirk balzò in piedi e si lanciò verso gli alberi. Il cane saltò, lo gettò di nuovo a terra, lottò con lui e quasi gli staccò un braccio. Questa volta non si alzò più. Il cane retrocedette di nuovo: aspettava, in posizione, con la bocca umida di sangue e di saliva. Dirk cercò di tirarsi su con il braccio sano. Strisciò per mezzo metro. Il cane ringhiò. Gli altri erano vicini. Dirk sentiva i latrati.