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— Hugh — disse Jannika, a voce bassissima, dopo un intero minuto, — i nostri nativi ricevevano messaggi da noi: non verbali, ma inconsci. Per mezzo loro… — la sua voce si fece soffocata, — … stavamo forse cercando di ucciderci a vicenda?

Hugh la fissò a bocca aperta, poi, in un unico e goffo gesto, depose il bicchiere e le tese le braccia.

— Oh, no, oh, no! — balbettò, mentre Jannika si stringeva a lui.

Alla fine andarono a letto. Hugh attinse dalla cassetta dei medicinali quando si accorse di non riuscire a nulla, ma quello che seguì sarebbe potuto accadere fra due automi. Alla fine, Jannika rimase distesa a piangere in silenzio mentre lui si alzava per bere ancora.

Fu il vento a svegliarla, e Jannika rimase distesa per qualche tempo ad ascoltare il suo battere contro le pareti mentre il sonno l’abbandonava, poi aprì gli occhi e guardò l’orologio, le cui lancette luminose le dissero che erano trascorse tre ore. Tanto valeva che si alzasse: forse avrebbe potuto aiutare Hugh a sentirsi meglio.

La luce nella stanza principale era ancora accesa, e Hugh era addormentato, disteso su una poltrona accanto alla quale c’era una bottiglia; Jannika notò quanto fossero profonde le rughe che segnavano il volto del marito.

Il vento era molto forte: forse si trattava di una tempesta che il servizio metereologico aveva segnalato sul mare e che doveva aver inaspettatamente deviato in quella direzione; la metereologia su Medea non era una scienza esatta. Poveri uranidi, i festeggiamenti rovinati e loro stessi soffiati in giro e dispersi, perfino messi in pericolo di vita! In genere erano in grado di volare con la bufera, ma alcuni di loro sarebbero andati incontro al disastro, sbattendo contro la parete di qualche collina o impigliandosi senza speranza in un albero o venendo colpiti dal fulmine. Ed i malati ed i feriti avrebbero sofferto più di tutti.

A’i’ach.

Jannika serrò gli occhi e lottò per ricordarsi quanto fossero gravi le ferite di A’i’ach, ma tutto era stato così confuso e terribile, e Hugh aveva fatto deviare la sua attenzione, così si era venuta a trovare ben presto fuori dal raggio di trasmissione. Inoltre, A’i’ach stesso non poteva aver determinato immediatamente le proprie condizioni: poteva essere grave come poteva anche non esserlo. Poteva essere ormai morto, oppure morente, o condannato a morire se non avesse ricevuto aiuto immediato.

E lei era responsabile… forse non colpevole secondo una definizione moralistica, ma certo responsabile. La decisione si cristallizzò in Jannika: se il tempo non lo avesse impedito, sarebbe andata a cercarlo.

Da sola? Sì: Hugh l’avrebbe protetta, ritardata, forse le avrebbe addirittura impedito con la forza di andare. Jannika registrò un breve messaggio per lui, si chiese se quelle parole non erano eccessivamente impersonali, poi decise che non era il caso di lasciare una frase più affettuosa. Sì, voleva una riconciliazione e supponeva che la volesse anche lui, ma non intendeva umiliarsi. Riordinò il proprio equipaggiamento ed aggiunse una giacca, nelle cui tasche infilò alcune sbarre di cibo, quindi uscì.

Fuori, il vento l’avvolse con un cupo sibilio, un torrente che doveva affrontare; le nubi si spostavano basse e fitte, tinte di rosso là dove Argo faceva capolino: il gigantesco pianeta sembrava volare fra quei veli lacerati. La polvere rotolava per il cortile, ruvida sulla pelle; ed in giro non c’era nessuno.

Una volta nell’hangar, Jannika richiese le ultime previsioni del tempo: erano brutte ma, pensò, non terrificanti. (E, anche ammesso che fosse precipitata, sarebbe stata forse una perdita enorme, per lei o per altri?)

— Sto tornando nella mia area di studio — spiegò al meccanico. Quando questi tentò di dissuaderla, Jannika fece valere il proprio grado: era un sistema che non le piaceva, ma Io aveva imparato dagli spettri danubiani della sua infanzia. — Niente discussioni. Pronto ad aprirmi il passaggio ed a fornirmi l’assistenza necessaria. È un ordine.

Il piccolo velivolo rabbrividì e ronzò sul terreno, ed il decollo richiese una notevole abilità… con un brutto momento in cui una folata di vento per poco non lo fece rovesciare… ma, una volta in aria, prese a volare stabilmente. Innalzatasi al di sopra delle nubi, Jannika le vide agitarsi come un mare, con Argo che sorgeva da esse come una montagna, le stelle e le due lune tenui bagliori più lontani. Verso nord, si scorgeva un’oscurità più densa ed elevata, il fronte della tempesta: il tempo sarebbe davvero peggiorato nelle prossime ore, e, se non le fosse riuscito di rientrare prima, avrebbe fatto meglio a rimanere da qualche parte, fino a che il cielo si fosse schiarito.

Il volo fino al luogo dello scontro fu breve; quando il pilota inerziale l’ebbe portata là, Jannika si mise a volare in cerchio, indossò il casco ed azionò il sistema, mentre il polso le si accelerava e la bocca le si inaridiva.

— A’i’ach — sussurrò, — sii vivo, per favore, sii vivo.

La luce verde si accese: almeno, la sua trasmittente era presente sul posto. E lui? Jannika si dovette costringere a cercare il contatto.

Debolezza, dolore, un frastuono di foglie fruscianti e di rami che sbattevano…

— A’i’ach, resisti, sto scendendo!

Ci fu un balzo di gioia: sì, lui la percepiva.

Un atterraggio sarebbe stato davvero rischioso. Il velivolo era in grado di scendere verticalmente, aveva un radar ed un sonar eccellenti, un computer ed attrezzature in grado di eseguire la maggior parte delle manovre, tuttavia, lo spazio libero sottostante non era molto ampio, era diviso in due, e, sebbene la foresta circostante attenuasse la furia del vento, ci sarebbero state però correnti pericolose.

— Dio, mi metto nelle Tue mani — mormorò Jannika, chiedendosi ancora una volta come facesse Hugh a sopportare il proprio ateismo.

Se avesse atteso oltre, avrebbe perduto il coraggio, quindi, giù!

La discesa si rivelò ancora più violenta di quanto si sarebbe aspettata: dapprima le nubi apparvero come un vortice, poi si ritrovò in mezzo a loro ed in preda ad un vento violento, e vide le cime degli alberi protendersi verso di lei mentre il velivolo rollava, sobbalzava, imbardava. Era stata forse una pazza? Dopotutto, non desiderava realmente morire…

Jannika riuscì ad atterrare, e, per parecchi minuti rimase a sedere, priva di forze; quando si mosse, tutto il corpo le doleva per la tensione, ma c’era in lei anche la sofferenza di A’i’ach: attirata dal bisogno del nativo, slacciò le cinture ed uscì. Il frastuono era assordante nella nera palizzata di alberi che la circondava, con i rami gementi e le cime sconvolte, ma al livello del terreno l’aria, per quanto agitata, era più quieta e quasi calda. L’invisibile Argo arrossava le nubi, il cui bagliore forniva una luce sufficiente a permetterle di vedere senza l’ausilio della torcia. Jannika non trovò traccia degli uranidi uccisi, ma, del resto, quelle creature non avevano ossa, ed i dromidi dovevano averle divorate fino all’ultimo frammento. Che uso orrendo… Dov’era A’i’ach?

Jannika lo trovò dopo qualche ricerca: era disteso dietro un cespuglio spinoso intorno al quale aveva avvolto i filamenti per ancorarsi al suolo; il suo corpo era sgonfio al massimo, un sacco vuoto, ma gli occhi erano brillanti ed era in grado di parlare, nell’acuta e sbuffante lingua del suo popolo, che, come Jannika era giunta a scoprire, era melodiosa.

— Possa la gioia soffiare su di te: non avrei mai sperato nel tuo arrivo. Sei la benvenuta. Qui mi sentivo solo.

L’ultima parola fu accompagnata da un brivido. Gli uranidi non sopportavano di rimanere a lungo separati dal loro sciame, ed alcuni xenologi ritenevano che in essi la consapevolezza fosse più collettiva che individuale. Jannika rifiutava però quel concetto, a meno che esso fosse forse applicabile a specie diverse trovate in altre zone di Nearside, perché A’i’ach aveva una sua anima!