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— Il tuo uranide la potrebbe sollevare, una volta che tu lo avessi rigonfiato.

— Non puoi dire sul serio! A’i’ach è ferito e convalescente… ed Erakoum ha tentato di ucciderlo!

— È stata un’aggressione reciproca, giusto?

— Ecco…

— Jan, non ho intenzione di abbandonarla. È laggiù in una tomba, lei che era solita correre libera, ed il contatto che ha instaurato con me è per lei più di quanto avessi immaginato. Rimarrò fino a che sarà stata salvata o fino a che sarà morta.

— No, Hugh, non devi. La tempesta…

— Non sto cercando di ricattarti, mia cara. In effetti, non biasimerei molto il tuo uranide se rifiutasse. Ma non posso lasciare Erakoum: semplicemente, non posso.

— Io… io ho imparato qualcosa sul tuo conto… tenterò.

*** A’i’ach non comprendeva la sua Jannika: non era concepibile che aiutare a salvare una Bestia potesse contribuire a portare la pace. Quella creatura era ciò che era, un’assassina, eppure… eppure un tempo non c’erano stati problemi con le Bestie, una volta esse erano state gli animali che più interessavano e divertivano il Popolo, e lui stesso rammentava le canzoni che parlavano della loro agilità e dei loro fuochi. In quei tempi, le Bestie venivano chiamate i Danzatori delle Fiamme.

Ciò che lo indusse a cedere alle suppliche di lei non era chiaro al suo spirito. Jannika gli aveva probabilmente salvato la vita, mettendo a repentaglio la propria, e questo pensiero era tanto nuovo per lui da sopraffarlo. A’i’ach desiderava moltissimo mantenere la propria unione con lei, perché essa arricchiva il suo mondo, e quindi esitò a respingere la richiesta che sembrava avere per Jannika un’importanza tanto pressante. Grazie all’unione creata dall’elmetto da lei indossato, A’i’ach riteneva di comprendere cosa provasse la donna quando diceva, con l’acqua che le scorreva dagli occhi:

— Voglio guarire ciò che ho fatto…

Quel tipo di sensazione era trascendente, come il Tempo Lucente, e fu questo che alla fine lo indusse a decidere.

Jannika lo assistette dalla cosa-che-la-trasportava, e tirò fuori un tubo da cui A’i’ach bevve gas, un affluire di nuova vita. Le ferite gli dolsero quando il suo globo si allargò, ma era in grado di non badarci.

A’i’ach ebbe bisogno del peso di lei che gli facesse da àncora per attraversare lo spazio fino al burrone, e, uniti com’erano dita con filamenti, per poco non furono portati via entrambi. Se si fosse gonfiato al massimo, A’i’ach l’avrebbe potuta sollevare. L’aria sibilava e spingeva, lo afferrava, lo voleva indirizzare contro le spine… com’era orribile il suolo!

E quanto peggio era dover scendere sotto di esso! A’i’ach pulsava per un’emozione che non riusciva a riconoscere, ma, se fossero stati in contatto, Jannika avrebbe potuto spiegargli che il termine inglese che indicava quella sensazione era «terrore», e che un umano o un dromide che avessero provato così intensamente quell’emozione, si sarebbero ritratti dinnanzi al precipizio. A’i’ach trasformò invece quella sensazione in una forza che lo spingesse in avanti, perché anche questa era una cosa che lo aiutava ad uscire da se stesso.

Giunta vicino al bordo del precipizio, Jannika lo circondò quanto più possibile con le braccia ed appoggiò la bocca al suo pelo, dicendo:

— Buona fortuna, caro A’i’ach, caro coraggioso A’i’ach, che Dio ti protegga!

Quei suoni vennero pronunciati da Jannika nella sua lingua, e l’uranide non comprese neppure il gesto.

Un cilindro che la donna gli aveva dato proiettava un forte raggio di luce, ed A’i’ach vide il pendio scosceso sprofondare sotto di lui, e pensò che, se fosse stato sbattuto contro quelle pareti, sarebbe stata la fine. Allora il suo spirito avrebbe dovuto affrontare un viaggio terribile, privo della protezione del corpo, prima di poter raggiungere l’Oltre… se mai ci fosse riuscito e non fosse stato lacerato e disperso prima di arrivare.

Rapidamente, prima che le correnti d’aria potessero impadronirsi di lui, A’i’ach si gettò oltre l’orlo, contrasse il suo globo e discese.

Il terrore generato dall’oscurità e dalle pareti ravvicinate non era uguale a nessun’altra sensazione che avesse provato nella sua vita, e, nel profondo del suo io, A’i’ach era consapevole in modo incandescente: sì, l’umano l’aveva portato in cieli strani.

Attraverso l’oscurità, gli giunse un odore ancora più pungente e si diresse da quella parte: il suo raggio di luce individuò la Bestia, distesa su uno scabro pendio, la bocca ansante e gli occhi ardenti. Si servì della spinta a propulsione gassosa e del sifone per mettersi in posizione fuori portata dalla Bestia, e poi disse in inglese quel che doveva dire:

— Sono v’nuto a salvarti. ***

— Dalle profondità della sua tomba, Erakoum sollevò lo sguardo sul Volatore: riusciva appena a distinguerlo, una pallida luna celata dietro il bagliore di una luce, e lo stupore la trasse fuori dal torpore. Il suo nemico l’aveva forse inseguita fin laggiù spinto dalla propria malevolenza?

Bene! Sarebbe morta combattendo, non a causa della sofferenza che la lacerava.

— Vieni avanti e combatti! — gridò con voce rauca. Se solo avesse potuto affondare i denti nel suo corpo, bere un’ultima sorsata del suo sangue… il ricordo di quel sapore era come un rapido lampo. Durante il tempo seguito allo scontro e che rifiutava di finire, Erakoum aveva pensato che sarebbe già morta se non avesse inghiottito quelle poche gocce di sangue.

Ma il meraviglioso beneficio da esse operato era ormai svanito, e, non appena Erakoum si mosse, cercando di assumere una posizione difensiva, il dolore la trapassò, seguito dall’oscurità. Quando si riscosse, il Volatore era ancora in attesa, e, in mezzo al rombo che l’assordava, Erakoum udì ripetutamente le stesse parole:

— Sono v’nuto a-salvarti.

La lingua degli umani? Questo era l’essere che gli umani preferivano, come preferivano lei, doveva essere lui, anche se il raggio sulla sua testa era celato dalla luce che teneva in uno dei filamenti. Poteva Hugh essere stato sempre in contatto con entrambi?

Erakoum lottò per formulare sillabe per la cui pronuncia la sua gola e la sua bocca non erano certo state create:

— Cho-sa vhu-oi tu? Vha, no stare qhui, vha.

Il Volatore rispose qualcosa che Erakoum non fu in grado di comprendere più di quanto il Volatore avesse compreso le sue parole. Doveva essere sceso laggiù per accertarsi di dove era finita oppure per prendersi gioco di lei mentre moriva. Erakoum tentò debolmente di afferrare una lancia: non era in condizione di scagliarla, ma…

Dallo spazio ignoto dove abitava l’anima di Hugh, Erakoum ricevette un’improvvisa consapevolezza: lui ti vuole salvare.

Impossibile. Ma… ma il Volatore era là. Per quanto delirante, Erakoum riuscì a ricordare che raramente i Volatori si dimostravano così pazienti.

Che altro poteva accaderle se non la morte? Nulla. Si riadagiò sulle sporgenze di roccia: che il Volatore fosse pure il suo destino o il suo Mardudek. Erakoum aveva trovato il coraggio di arrendersi.

La sagoma rimase sospesa. Erakoum percepì nel pelo piccole folate d’aria, ed intuì che quello doveva essere un posto pericoloso anche per il Volatore. Ci fu un susseguirsi a raffica di suoni: il Volatore stava cercando di spiegarle qualcosa, ma era troppo stanca e ferita per ascoltare, e si limitò a stringersi il muso con entrambe le mani, chiedendosi se il Volatore avrebbe compreso il senso di quel gesto.

Forse sì. Esitante, il Volatore si accostò, ed Erakoum rimase immobile, anche quando uno dei filamenti la sfiorò. I filamenti scivolarono sul suo corpo, trovarono un appiglio, si strinsero; attraverso un velo di sofferenza, Erakoum vide la sagoma gonfiarsi: aveva intenzione di sollevarla… fino da Hugh?