Patricia A. McKillip
La maga di Eld
1
Un tempo, il mago Heald si congiunse con una donna del popolo, nella città capitale di Mondor, e lei gli diede un figlio con un occhio verde e l’altro nero. Heald, che aveva gli occhi neri come la cupa palude di Fyrbolg, entrò e uscì come il vento dalla sua vita, ma il bimbo, chiamato Myk, rimase con la madre fino all’età di quindici anni.
Forte, largo di spalle, Myk andò come apprendista nella bottega di un maniscalco, e gli uomini che si recavano laggiù a farsi riparare il carro o ferrare il cavallo tendevano a maledire la sua lentezza e la sua scontrosità, finché, dentro di lui, non si scuoteva qualcosa di torpido e possente come una bestia di palude al suo risveglio nell’oscurità. Allora si volgeva a fissarli con il suo occhio nero ed essi si azzittivano e si allontanavano intimoriti.
C’era in quel giovane una vena di magia, così come talvolta ci può essere una vena di fuoco nella legna umida. Con gli uomini parlava poco, in tono brusco e aspro, ma quando nei giorni di mercato posava la mano su un cavallo, su un cane affamato o su una colomba in gabbia, allora nel suo occhio scuro compariva una fiamma e la voce prendeva a scorrergli dolcemente, come il sognante mormorio del Fiume Slinoon.
Finché, un giorno, Myk lasciò la città di Mondor per andare a stabilirsi sul Monte Eld.
L’Eld era la più alta montagna del regno di Eldwold: sorgeva alle spalle di Mondor e la sua ombra cupa si allungava sulla città al calar della notte, allorché il sole scendeva a perdersi nelle nebbie che ne coronavano la vetta.
Dai margini delle nebbie di Eld, i pastori e i giovani cacciatori potevano far correre lo sguardo per un lunghissimo tratto nelle terre al di là di Mondor: a occidente fino alla Piana di Terbrec, dominio dei Signori del Sirle; a nord fino alle Terre Incolte, dove si aggirava ancora, a rammaricarsi dell’ultima battaglia da lui combattuta e persa, lo spettro del terzo Re di Eldwold, sotto le cui orme silenziose e inquiete non cresceva più niente di vivo.
Laggiù, nelle dense e scure foreste del Monte Eld, protette dal candido silenzio delle nevi perenni, Myk cominciò a fare raccolta di tutti gli animali meravigliosi e leggendari.
Dalle terre selvagge e ricche di laghi dell’Eldwold settentrionale chiamò a sé il Cigno Nero di Tirlith, l’uccello dalle grandi ali e dagli occhi color della notte, che aveva portato via in volo, sul suo dorso possente, la terza figlia di Re Merroc, salvandola dalla torre di pietra dove era prigioniera.
Poi, Myk lanciò il forte, muto laccio del suo richiamo nelle impenetrabili foreste sull’altro lato dell’Eld da cui nessun uomo aveva mai fatto ritorno, e portò a sé, come un salmone preso all’amo, il Cinghiale Cyrin, dalle bianche zanne e dagli occhi rossi come la brace, che era più abile di qualsiasi menestrello a cantare le ballate, e che conosceva la risposta a tutte le domande meno una.
Dal cuore buio e silenzioso dello stesso Monte su cui si era ritirato, Myk fece uscire anche Gyld, il Drago dalle ali verdi. La mente del Drago, dopo essere rimasta per secoli a sognare il gelido fuoco dell’oro da lui posseduto, si destò con profondo piacere nell’udire il proprio nome, tra le ultime brume del sonno, nel canto che Myk gli inviava nell’oscurità. Un canto che il Drago s’era quasi scordato.
Da Gyld, Myk si fece dare una manciata di antichi gioielli e l’utilizzò per costruirsi in mezzo agli altissimi pini una casa di pietra bianca e levigata e un grande giardino per gli animali: il tutto recintato da un alto muro di pietra e chiuso da una cancellata di ferro battuto.
Infine, attirò nella casa anche una ragazza di montagna, che parlava poco e che non si lasciava intimidire né dagli animali né dal loro padrone. La ragazza veniva da una famiglia povera, aveva i capelli spettinati e le braccia muscolose; nell’abitazione di Myk vedeva ogni giorno cose che gli altri incontravano forse una sola volta nella loro vita, e solo nei versi di qualche vecchia poesia o nelle ballate di un cantastorie.
La ragazza diede a Myk un figlio con due occhi neri, che imparò a rimanere in silenzio come un ciocco di legno quando Myk lanciava i suoi appelli mentali. Myk gli insegnò a leggere le antiche storie e le leggende contenute nei libri da lui raccolti; a inviare da un capo all’altro dell’Eldwold, e nelle terre al di là dei suoi confini, il richiamo di un nome da tutti dimenticato; ad attendere in silenzio, pazientando per settimane, per mesi o per anni, fino al momento in cui la scossa dell’appello si accendeva come una fiamma nella mente lontana, possente, stupita, dell’animale che corrispondeva a quel nome.
E quando Myk uscì da se stesso per non alzarsi più dal luogo in cui s’era posto a sedere ai raggi della luna, fu suo figlio Ogam a continuare la raccolta.
Ogam attirò a sé dal Deserto Meridionale, oltre il Monte Eld, il Leone Gules, il cui manto aveva il colore del tesoro di un Re e la cui fama, nel corso dei secoli, aveva spinto molti giovani imprudenti a strane avventure che avevano compromesso la loro ragione.
Poi rubò dal focolare di una strega, in un paese assai lontano, la Gatta Moriah, grande e nera, un tempo leggendaria in tutto l’Eldwold per la sua conoscenza degli incantesimi e delle più segrete fatture.
Ter, il Falco dagli occhi azzurri che aveva fatto a pezzi i sette assassini del mago Aer, calò un giorno come un fulmine dal cielo turchino per artigliare Ogam alla spalla. Gli occhi azzurri del Falco si fissarono in quelli neri del mago, ma dopo una lotta breve e furiosa, anche la stretta rovente degli artigli si rilassò; il Falco rinunciò al proprio nome e si arrese al superiore potere di Ogam.
Con uno di quei leggeri, gelidi sorrisi che aveva ereditato da Myk, Ogam chiamò a sé anche la prima figlia di Horst, Signore di Hilt, quando un giorno la vide passare a cavallo, troppo vicina al suo Monte. Era un’adolescente bellissima e fragile, intimidita dal silenzio e dagli strani, meravigliosi animali che le ricordavano le figure intessute negli antichi arazzi del castello paterno. E temeva anche Ogam, paventando il suo potere immobile e celato come una lama entro il fodero, i suoi occhi imperscrutabili. Morì nel dare alla luce la loro prima creatura, che, stranamente, era una bambina. Quando si riebbe dalla sorpresa di scoprire che era una femmina, Ogam le diede nome Sybel.
Nell’isolamento del Monte, Sybel crebbe alta e robusta, con la figura sottile e i capelli di platino della principessa, gli occhi neri e senza paura del padre. Si prese cura delle creature e del giardino e imparò presto a soggiogare un animale contro la sua volontà; a inviare lontano, dal silenzio della sua mente, un antico nome di potere; a scrutare con il suo spirito i luoghi nascosti e dimenticati.
Orgoglioso della prontezza d’ingegno della figlia, Ogam le costruì una stanza che aveva per soffitto una grande cupola di cristallo, sottile come il vetro soffiato e dura come la pietra, dove lei poteva sedere sotto i colori del mondo della notte e inviare con serenità i suoi richiami.
Poi, quando Sybel aveva da poco compiuto i sedici anni, Ogam morì e la lasciò sola con una casa bianca e bellissima, una grande biblioteca di libri pesanti e chiusi a chiave in legature di ferro, una collezione di animali di sogno e il potere di legarli a sé.
Una sera, Sybel, non molto tempo più tardi, leggeva in uno dei suoi libri più antichi la storia di un grande uccello bianco, le cui ali scivolavano nell’aria come nivei stendardi agitati dal vento: la creatura che aveva portato sul dorso la sola Regina che l’Eldwold avesse mai avuto, in tempi ormai remoti.
Ripeté dolcemente tra sé il nome di quel meraviglioso uccello: Liralen. E subito, seduta sul pavimento sotto la cupola, con in grembo il libro ancora aperto, lanciò nell’immensa notte dell’Eldwold il richiamo che doveva far accorrere quell’animale di cui nessuno, da secoli, faceva più il nome.
Ma il richiamo venne bruscamente interrotto da qualcuno che gridava, fermo davanti alle sbarre del suo cancello chiuso.